e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Dante: la parola dell’esilio, l’esilio della parola

di Riccardo Bassi

L’esilio di Dante e la sua rappresentazione nella Divina Commedia sono stati oggetto di numerosi studi, volti a indagare sia i riferimenti biografici sia quelli meramente testuali. Nel volume Dante: la parola dell’esilio, l’esilio della parola Giuseppe Chiecchi (Pisa, ETS, 2022) torna a interrogarsi sul testo dell’opera dantesca e sul suo paradosso, ossia l’ineffabile: l’impresa poetica inaudita, soprattutto quella del Paradiso, infatti, comporta frequenti dichiarazioni di impronunciabilità che non rappresentano vuota retorica. La terza cantica ha rappresentato per Dante un’assoluta novità: la rappresentazione di un luogo altro, avulso dallo spazio e dal tempo terreno, e dell’eterno presente di Dio, in cui i beati possono immergersi: del Paradiso Dante afferma ciò che non può essere perché le parole umane sono riduttive e finite per delineare l’infinito. Se, come ipotizza Chiecchi, non è possibile rappresentare la teofania «per verba» (Pd. I 70), allora solo un ricordo ex post può rendere vagamente intellegibile il mistero di Dio. Nel Paradiso la parola non è sincronica, ma anticipa o posticipa l’accaduto. Sul dileguarsi del divino insiste in particolar modo l’autore, che ha ben presente l’ineffabilità del sacro, cui Dante si trova di fronte nella rappresentazione poetica del Paradiso. Nel «poema sacro» (Pd. XXV 1), secondo Chiecchi, si assiste a un rinvio della teofania, mostrando un Dio che si nasconde e che diventa inafferrabile. Nel canto XXIII Dante narra il trionfo di Cristo e della Vergine, ma, anche in questo caso ci si trova di fronte all’epifania dell’assente: come le donne, nella mattina di Pasqua, trovano il sepolcro vuoto, così Dio si mostra in una dinamica di svuotamento. Il sacro, dunque, secondo Chiecchi, è inesprimibile con la parola, che può pronunciarsi solo quando Dio è assente. L’autore rovescia un paradigma che spesso è insito in molti lettori, critici e poeti: Dio, che è eterno e superiore alle cose terrene, sarebbe ridotto nella sua essenza, se fosse raggiungibile con le parole; Dante, dunque, nel Paradiso compie un percorso regressivo verso il divino che si nascosto alla parola umana. Il testo di Chiecchi riporta il lettore a considerare nuovamente alcuni passi celebri delle opere dantesche, come il rapporto con Moroello Malaspina e la profezia di Ciacco (Inf. VI), la cui reticenza è interpretata dall’autore alla luce del dolore di Dante per la sua condizione di esule. Secondo l’interpretazione dell’incontro con Brunetto Latini (Inf. XV), Firenze è destinata alla rovina a causa delle lotte intestine che la infiammano, dovute all’origine fiesolana e all’influsso del dio Marte. Il testo si occupa diffusamente del rapporto tra Firenze e Fiesole, soprattutto quando questa discendenza viene svelata dal maestro di Dante: se fino alla profezia reticente di Ciacco, cui si potrebbe aggiungere quella di Farinata, l’esilio era motivo di disonore, con le parole di Brunetto l’esilio è onorevole perché dimostra la singolare eccezionalità di Dante. Il poeta, infatti, è il solo esponente, se si eccettuano i due giusti (non ascoltati) del canto VI dell’Inferno, della «sementa santa» (Inf. XV 76) di origine romana; secondo Chiecchi, dunque, i fiorentini non discendono da due stirpi differenti, una di origine fiesolana e l’altra romana, di cui quest’ultima è l’unica virtuosa, ma le parole di Brunetto si riferiscono solo a Dante, unica eccezione. Sempre sulla parabola dell’esilio, Chiecchi procede con una nuova analisi dei canti di Cacciaguida (Pd. XV-XVIII), in cui l’avo di Dante, definito figura anfibia che pone ordine e valorizza gli eventi occorsi al poeta, dispone la vita caotica di quest’ultimo alla luce del disegno provvidenziale di Dio. Il testo di Chiecchi, dunque, offre un approccio differente circa l’esilio e la parola poetica, evidenziando come anche i silenzi e le reticenze testuali siano stati utili a Dante nella rappresentazione dell’ineffabile.