e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)

Dante a Firenze: una preistoria della “Commedia”?

di Lorenzo Dell’Oso, Georg-August-Universität Göttingen

Cosa ha imparato Dante a Firenze, prima dell’esilio? Negli ultimi anni si sta provando a dare più di una una risposta a questa domanda. Il PRIN del 2017, vinto da un consorzio di quattro università (Sapienza, Roma Tre, Bologna e Ferrara) su “Libri e lettori a Firenze dal XIII al XV secolo: la Biblioteca di Santa Croce”, è ultimo stadio e nuovo inizio di una serie di ricerche sulla formazione intellettuale di Dante che furono avviate sin dagli anni Sessanta dall’americano Charles Till Davis (1929-1998) con saggi pionieristici come The Early Collection of Books in Santa Croce in Florence (1963) e Education in Dante’s Florence (1965), e che in Italia vennero conosciuti solo vent’anni più tardi. Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, grazie a lavori di studiosi come Zygmunt Barański, Sonia Gentili e Giuseppina Brunetti, le ricerche si sono concentrate sui principali conventi degli ordini mendicanti attivi a Firenze – il convento francescano di Santa Croce e quello domenicano di Santa Maria Novella – e sui diversi frati teologi che vi hanno operato nell’ultimo quarto del Duecento: da personaggi noti e di grande rilevanza culturale come Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale e Remigio dei Girolami, ad altri meno meno noti ma non per questo meno interessanti come Pietro delle Travi, Giacomo da Tresanti, Riccoldo da Montecroce. Specie del Travi e del Tresanti resta ancora molto materiale inedito, che è paradossalmente quello più interessante, perché costituito da lezioni e dispute tenute negli anni Novanta del Duecento, cioè nel decennio nel quale si inscrivono i famosi “trenta mesi” dopo i quali Dante conobbe donna Filosofia, alle “scuole delli religiosi” e alle “disputazioni delli filosofanti”. Ovviamente, la prima domanda che viene in mente al dantista è capire se e come questa frequentazione possa aver influenzato la composizione di opere scritte a Firenze come la Vita nova, Le dolci rime, Poscia ch’amor, Io son venuto al punto della rota e altre. Ma la seconda domanda, più complessa e affascinante, è capire se la frequentazione di questi ambienti possa aver contribuito a gettare le fondamenta di un’opera come la Commedia. Questa domanda suscita un interesse ancora maggiore dopo i recenti interventi di Alberto Casadei, nei quali si ipotizza che Dante avrebbe composto i primi quattro canti dell’Inferno ancora a Firenze, poco prima dell’esilio del 1302, e dunque non molti anni dopo gli anni di frequentazione delle “scuole”. In questo breve intervento proverò a sondare le competenze teologiche che Dante mostrerebbe nei primi quattro canti dell’Inferno sulla base dell’insegnamento teologico di un lector theoloagiae francescano che insegnò a Santa Croce negli anni Novanta del Duecento, il già citato Pietro delle Travi. Di Pietro si conserva il testo delle lezioni sui quattro libri delle Sentenze, di nove questioni disputate e di due Quodlibeta (per un totale 70 quaestiones): lezioni e dispute tenute fra 1294 e 1296, e per la quasi totalità ancora inedite. In particolare, mi concentrerò sugli angeli ignavi di Inf. III e sulla concezione del Limbo in Inf. IV.

Vediamo il primo caso:

Mischiate sono a quel cattivo coro
delli angeli che non furon ribelli,
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro:
càccialli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli.

(Inf. III, vv. 37-42)

In Inf. III, Dante e Virgilio oltrepassano la porta dell’Inferno e si trovano nel vestibolo dei pusillanimi. Virgilio spiega a Dante che queste anime sono mischiate a quelle degli angeli ignavi, cioè angeli che non comparivano nella teologia ufficiale, e che Dante dovette elaborare sulla base di più modelli. Cosa può aver appreso Dante, a Firenze, di questa particolare tipologia di angeli? Bruno Nardi mise già in luce l’importanza dell’attività teologica di Olivi, che insegnò proprio a Santa Croce fra 1287 e 1289. Secondo Olivi, la conoscenza naturale che gli angeli avevano di Dio non era chiara quanto quella che essi avevano di sé stessi: ciò spiega come dentro di loro si instaurasse un amore di sé (“amor sui”) che andò ben presto a sovrastare l’amore che avrebbero dovuto rivolgere a Dio. Nel caso di Lucifero questo amore di sé sfociò nell’aperta ribellione a Dio. Molti altri angeli dimostrarono invece solo un amore di sé “disordinato”, che li spinse a non prendere parte nella guerra tra i ribelli e i fedeli a Dio: “così come l’amore è la radice di tutte le affezioni – sostiene Olivi – così l’amore di sé è la radice di tutte le affezioni non virtuose”; dunque, “l’amore che si aggrappa assolutamente a sé stesso ha in sé la massima scorrettezza e bassezza, ovvero la più bassa auto-inscrizione nella propria nullità e una sorta di mollezza e flaccidità”. E da qui, conclude Nardi, potrebbe derivare l’invenzione dantesca di un gruppo di angeli che, presi dall’amore di sé, non presero nessuna posizione e “per sé fuoro”.

L’ipotesi di Nardi può essere messa alla prova indagando il corpus di Pietro delle Travi (corpus sconosciuto al grande dantista toscano). Il Travi – che di Olivi fu molto probabilmente allievo – in una quaestio dedicata alla superbia degli angeli riprende il concetto del “disordinato” amore di sé e sostiene che un angelo cattivo “rivoltosi alla sua eccellenza personale, amò in modo smisurato e volle essere preferito in modo unico” – dove il sintagma “singulariter praeferri voluit” può ricordare il dantesco “per sé fuoro” (Inf. III, 39). In un’altra quaestio, nel chiedersi se tutti gli angeli cattivi commisero lo stesso peccato, Pietro riconosce l’esistenza di due schiere di angeli, i cattivi e i buoni, e ritiene che tutti i cattivi furono sì toccati da superbia, ma non tutti allo stesso modo: “non vi fu alcun ordine di causalità se non l’eccesso, perché più un angelo era indomito, più era superbo”. Pietro riconosce quindi una gradualità nella superbia degli angeli: più un angelo è indomito, più è superbo; più è superbo, più è cattivo. Poco più avanti, il francescano dedica delle quaestiones alle cause della rovina degli angeli e, tra queste, una in cui ci si chiede se gli angeli ribelli caddero in un inferno materiale. Seguendo il commento alle Sentenze di Bonaventura (che era ovviamente alla base dell’insegnamento teologico di un convento francescano), Pietro distingue un inferno materiale da un altro luogo, chiamato “aer caliginosus” (aria oscura, nebbiosa), cioè una zona aerea collocata al di sopra della superficie terrestre: nell’inferno materiale i demoni sono puniti per l’eternità, nell’ “aer caliginosus” fino al giorno del giudizio. Questa zona area per Pietro è di fatto un terzo luogo di locazione degli angeli (oltre all’Empireo e all’Inferno), è posta al di fuori dell’Inferno propriamente detto ed è oscura: si può dire che si tratta di un luogo dedicato ad angeli di livello ‘inferiore’ rispetto a quelli puniti nell’Inferno. È quindi un luogo, anche per via del suo nome, che può senz’altro ricordare l’ “aere sanza stelle” (Inf. III, v. 23) e l’ “aura sanza tempo tinta” (Inf. III, v. 29) dell’antinferno dantesco. Insomma, l’ “aer caliginosus” come sede di diavoli di un livello inferiore rispetto a quelli infernali, il “disordinato amore di sé” degli angeli cattivi e la diversa gradazione della loro superbia – come emergono dalla lezioni di Olivi e del Travi a Santa Croce – sono elementi che possono aver tutti contribuito a sedimentare, o forse a favorire, l’originale elaborazione dantesca di una schiera di angeli che “per sé fuoro” – una schiera di angeli, questa, che scomparirà in Par. XXIX dove Dante, riferendosi alla caduta degli angeli ribelli, parlerà di due e non di tre categorie di angeli.

Passiamo al secondo caso:

Gran duol mi prese al cuor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.

(If IV, 43-5)

“discese
nel limbo de lo ’nferno Giovenale”

(Pg XXII, 14)

Che cos’era il Limbo nel Medioevo e chi vi risiedeva? Com’è noto, i teologi distinguevano un Limbo dei Padri da un Limbo dei bambini. Alberto Magno, Bonaventura e Tommaso d’Aquino proponevano ulteriori distinzioni, e consideravano il Limbo attiguo all’Inferno, ma distinto da esso. Ora, dalle lezioni di Pietro questa distinzione non è netta: anzi, sembra proprio che assimili il Limbo all’Inferno, sia cioé parte di esso. Come sostiene in un’altra quaestio, Cristo scese nell’Inferno, e da qui salvò i “membra Christi” e coloro che, pur macchiati dal peccato originale, si purificarono nella vita terrena attraverso i sacramenti del loro tempo (cioè i Patriarchi e i giusti dell’Antico testamento). Dall’Inferno, invece, Cristo non salvò i bambini non battezzati: è dunque chiaro che Pietro consideri il Limbo come parte integrante dell’Inferno. Come nel caso degli angeli ignavi, anche nel rappresentare il Limbo Dante si mostra ricettivo e innovativo nei confronti dell’insegnamento teologico del suo tempo. Si mostra ricettivo nel fare del Limbo una parte effettiva dell’Inferno (cioè il primo cerchio) e nel farne l’unica sede dei bambini non battezzati e dei Patriarchi prima di essere tratti fuori da Cristo. Ma si mostra innovativo nell’allargare il Limbo ai giusti dell’antichità e privi di fede come Virgilio e agli infedeli come il Saladino, Averroè e Avicenna. Queste anime, come dice lo stesso poeta latino, sono prive di speranza: “sanza speme viviamo in disio” (Inf. IV, v. 42). Ed è logico, trattandosi di dannati. Tuttavia, questa locuzione sembra opposta a quanto il Travi stesso osserva in un’altra sua quaestio dedicata proprio alla speranza, e in cui sostiene che “quelli che sono nel Limbo hanno speranza, perché non hanno il premio sostanziale che li rende beati”, dove “praemium substantiale”, secondo la tradizione scolastica, corrisponde alla ‘visione di Dio’. Si tratta di un passo problematico perché Pietro, a differenza di auctoritates come Alberto (per cui i Patriarchi nel Limbo “habebant […] fidem et spem”) e Bonaventura, sembra considerare i limbicoli attuali (“illi qui sunt”) come non-dannati. Chi sarebbero questi abitanti del Limbo che hanno speranza? Certo non i Patriarchi, perché furono portati via da Cristo e dunque non “sono” attualmente nel Limbo. Forse i bimbi non battezzati? O forse un’altra tipologia di anime non specificate? Il testo tace, ma è meritorio di indagini ulteriori.

Per tornare alla nostra domanda iniziale, cosa ha imparato Dante a Firenze, prima dell’esilio? O meglio: cosa avrebbe potuto imparare riguardo agli angeli ignavi e al limbo, così come emergono dai suoi canti infernali? Avrebbe potuto imparare soprattutto una cosa: cioè che sia la nozione di angeli – buoni e cattivi, e più e meno cattivi– sia la nozione di limbo erano nozioni problematiche negli ambienti teologici del tempo. E in quanto nozioni non chiare avrebbero potuto garantire un certo margine di manovra inventiva. Ed ecco, dunque, un Dante che ritrae in poesia elementi e luoghi non contemplati dalla teologia del tempo, come gli angeli ignavi e un Limbo composto anche da pagani. Il poeta, cioè, dimostra una sua personale rielaborazione dei luoghi ultraterreni, peraltro in un perimetro garantito dal modello del sesto libro dell’Eneide. Tutto ciò ovviamente non ci dice nulla sulla fiorentinità dei primi canti: bisognerà appurare se e in che termini le idee professate dai francescani fiorentini fossero simili o diverse da quelle professate a Bologna, Lucca, Verona prima e dopo il 1302. Va da sé che Dante avrebbe potuto benissimo rielaborare, ad esempio, nel 1305 o 1306, concetti teologici appresi dieci anni prima. Diverso è invece il caso inverso: cioè se ci chiedessimo se la frequentazione di un ambiente come quello delle “scuole delli religiosi” fiorentine avrebbe potuto fornire a un laico come Dante delle competenze di base per la composizione dei primi quattro canti, in quel caso mi sentirei di rispondere di sì. Ma la ricerca in questo senso è appena iniziata: la ricchezza del panorama teologico e filosofico dei conventi fiorentini negli anni in cui Dante dovette frequentarli sta finalmente venendo alla luce grazie ad alcune delle ricerche prima citate. E dunque staremo a vedere cosa ci riserva il futuro.