e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Dante come performance: un’intervista con Paolo Gervasi

 

Paolo Gervasi ha scritto con Alberto Casadei il libro La voce di Dante. Performance dantesche tra teatro, tv e nuovi media, pubblicato da Luca Sossella editore. Il libro è dedicato alle riprese performative dell’opera di Dante, e in particolare della Divina commedia: dalle letture dei “mattatori” del secondo novecento, alle trasposizioni teatrali, fino ad alcune riscritture multimediali che comprendono format televisivi e videogiochi. Il libro include anche un saggio di Rodolfo Sacchettini sull’archeologia della lettura dantesca contemporanea, che racconta i prodromi ottocenteschi e i primi esperimenti radiofonici e televisivi.

Si potrebbe affermare, riprendendo la tesi principale del libro, che le caratteristiche stilistiche e strutturali della Divina commedia contengano quasi un “invito” alla lettura ad alta voce, siano originariamente performative?

Quando Dante entra nell’inferno subisce prima di tutto uno choc sonoro: l’oscurità è totale e tutte le informazioni che riesce a ricavare sull’ambiente sono uditive. “Diverse lingue, orribili favelle,/ parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle”. La dannazione coincide con la dispersione della singola voce nel caos babelico, la dissoluzione dell’identità nell’indistinto sonoro: solo il passaggio di Dante consente ai dannati di staccarsi dallo sfondo e tornare a parlare con accenti umani. Il grande assolo di Francesca, nel canto V, è preparato dalla descrizione di una massa fonica: la parola emerge da un luogo “d’ogne luce muto, / che mugghia come fa mar per tempesta”. Dante nel poema è un attivatore di voci, e ogni suo incontro è una performance vocale. Vale anche per il purgatorio e il paradiso, seppure in senso inverso: in purgatorio le anime sono assorte nel canto corale delle lodi di Dio, e si staccano dal coro per parlare con Dante; in paradiso i beati sono immersi in una compatta sostanza musicale che è l’armonia delle sfere, quasi un ultrasuono inudibile all’orecchio umano, e per parlare con Dante devono “discendere”, tornare ad attestarsi su frequenze accessibili alla fisiologia umana. Nel libro siamo partiti dalla struttura fonica della Divina commedia, dal suo paesaggio sonoro, e abbiamo immaginato che chi ha letto performativamente il poema abbia ripetuto la performance di Dante, il suo gesto di ridare voce umana alle anime, di riattivare la loro capacità di parlare. Ognuno dei celebri lettori del poema nel secondo novecento ha intercettato una diversa caratteristica del poema, interpretandolo quindi anche in senso critico: Gassman sottolinea la qualità dialogica del testo e sembra quasi replicare lo sforzo intellettuale che Dante fa per comprendere e rappresentare la propria esperienza; Carmelo Bene restituisce la qualità puramente fonica della lingua dantesca, “come fosse la lingua che parlasse”, e l’esperienza di cieca immersione sonora nella realtà infernale; Sermonti riesce a riprodurre nel dispositivo lettura-commento la poesia dell’intelligenza, l’intreccio di razionalità e ispirazione; Benigni recupera gli accenti comici e satirici che pure sono presenti nel testo, e pratica uno sfondamento della quarta parete simile a quello praticato da Dante quando si rivolge direttamente a chi legge, o meglio: a chi ascolta.

Poi ci sono le riprese propriamente teatrali, che hanno sfidato il paradosso dell’irrappresentabilità del mondo ultraterreno.

La Divina commedia è percorsa da momenti propriamente teatrali, influenzati dalle tipologie performative che Dante poteva avere presenti, come la sacra rappresentazione. I canti XX e XXI dell’Inferno contengono una piccola – e divertente – commedia nella commedia, Dante e Virgilio alle prese con i diavoli tonti e scurrili capeggiati da Malebranche.
Ma l’inferno nel suo complesso è un “teatro della crudeltà”, una galleria di performance corporee in cui la condizione infernale si manifesta nella deformazione che sfigura l’immagine umana. Questo aspetto ha intercettato prevedibilmente la ricerca del teatro contemporaneo, che sulla disarticolazione del corpo ha fondato molti dei suoi significati, ed è stato valorizzato tanto da Federico Tiezzi, che ha rappresentato la Divina commedia con la compagnia I Magazzini, quanto da Romeo Castellucci con la Societas Raffaello Sanzio. Con linguaggi diversi e in modi opposti: Tiezzi si serve delle riscritture contemporanee del testo affidate a Sanguineti, Luzi e Giudici; Castellucci rinuncia integralmente ai versi e trasferisce la poesia nella sintassi dei corpi. Il Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari invece ha estratto dal poema un’idea di teatro collettivo, trasformando la performance in una “chiamata pubblica” e letteralmente portando il pubblico sulla scena del testo, rendendolo parte di un canto polifonico.
Più difficile per il teatro è stato rappresentare i due regni superiori, purgatorio e paradiso: se l’espressività dell’inferno consuonava con i linguaggi del teatro contemporaneo – come è stato del resto per la letteratura – l’esperienza dell’ascesa e la tensione verso la salvezza erano molto più difficili da mettere in scena. E mentre il purgatorio conserva ancora un’evidente qualità dialogica, in paradiso la parola, il dialogo, la sceneggiatura, sono continuamente vanificati dal fatto che i pensieri di Dante sono del tutto trasparenti ai suoi interlocutori, i quali li vedono prima che lui li esprima: una situazione beckettiana per eccesso di comunicabilità! Gli interpreti teatrali hanno risposto cercando di rappresentare l’afasia e lo stupor, la resa della visione e la cecità per eccesso di luce (Castellucci); oppure di fare del paradiso una dimensione della memoria (Tiezzi). Il Teatro delle Albe ha cercato di imprimere alla propria chiamata pubblica un movimento ascensionale, di affermare la possibilità di uscire dall’inferno: mettendo “in vita” il poema a Kibera, uno slum di Nairobi, ha immaginato un finale in cui i dannati della terra vengono portati fuori dal loro concretissimo inferno.

Con le letture e con il teatro siamo ancora in un contesto di ricezione dell’opera relativamente vicino alla realtà testuale del poema. Poi però ci sono trasposizioni molto più libere e distanti: come nascono e in che rapporto stanno con la Divina commedia e la sua ricezione critica?

La Divina commedia e il mito biografico di Dante hanno raggiunto un’incredibile capacità di disseminazione, hanno prodotto delle particelle di significato che vanno a depositarsi anche lontanissimo dalla verità storica e filologica del testo. La qualità performativa della Divina commedia ha generato delle “immagini di Dante”, delle proiezioni biografiche spesso leggendarie che però traggono forza e consistenza dalla realtà dei versi, mettono in scena cioè il Dante personaggio del poema, più che il Dante storico. E così ecco il Dante romantico, statuario, appassionato, intransigente e indignato, interpretato da Giorgio Albertazzi, della Vita di Dante di Vittorio Cottafavi, voluta nel 1965 dalla Rai di Angelo Guglielmi. Allo stesso tempo la struttura enciclopedica della Divina commedia attiva l’immaginazione postmoderna di Peter Greenaway, che con A Tv Dante escogita per la tv britannica, insieme al pittore Tom Phillips, una performance digitale, ipermediale, in cui la dizione dei versi è ramificata da commenti, approfondimenti, connessioni tematiche che si aprono sullo schermo come dei link: l’universo “legato con amore in un volume” di Dante diventa il sogno della conoscenza universale che converge in un unico luogo, la rete. Sembrerà un’iperbole, ma la potenza immaginativa di Dante può davvero arrivare così lontano. Perfino il videogioco Dante’s Inferno, che dal punto di vista della ricezione dell’opera appare come una profanazione, ha dei legami con la qualità avventurosa, dinamica, del testo, in alcuni punti pieno di azione, di fisicità, di spaventosi pericoli che richiedono a Dante e Virgilio una performatività da Mission Impossible. Il videogioco è una performance, in quanto prevede la reattività fisica di chi gioca: e anche questo aspetto intercetta una caratteristica profonda del testo, che implica sempre il coinvolgimento sensoriale di chi legge. L’infedeltà testuale del videogioco testimonia della trasformazione di Dante in un’icona globale, la cui evocazione è sufficiente ad attivare significati, un immaginario, atmosfere, frammenti di senso. Questo meccanismo di disseminazione si ritrova anche nella vitalità delle celebrazioni per il settecentenario della morte, in cui hanno spazio tanto rigorosi accertamenti storici e biografici – come quello, potente anche dal punto di vista performativo, di Alessandro Barbero –, quanto una ridiscussione radicale dell’opera condotta con strumenti inediti – come quella di Alberto Casadei –, accanto alle più diverse reinterpretazioni creative del poema.

 

Si ringrazia vivamente il dottor Paolo Gervasi per la disponibilità e per i materiali forniti.