Marina Riccucci, docente di Letteratura Italiana dell’Università di Pisa, ha avviato da circa due anni una ricerca sull’uso del lessico dantesco da parte di coloro che hanno vissuto la terribile esperienza dei lager. A partire da uno studio condotto con l’allieva Sara Calderini per una tesi su “Dante e il lager”, Riccucci ha poi preso in esame fonti non letterarie come diari, lettere e racconti orali per constatare l’impossibilità di molti ex-deportati a trovare le parole per riferire la loro atroce storia: “non ci sono parole per dirlo”, infatti, è la frase che più ricorre nelle interviste che la stessa Riccucci ha effettuato a Liliana Segre, Mauro Betti e Goti Bauer, solo per citare alcuni esempi.
Eppure, quando i sopravvissuti si sforzano di raccontare ciò che hanno vissuto, ecco che viene loro spontaneo ricorrere all’immaginario infernale dantesco, a prescindere dal loro livello di istruzione: nelle parole di queste persone il lager è l’inferno, i deportati sono la perduta gente, il momento della loro liberazione paragonato al riveder le stelle.
Dante appartiene a tutti, la sua Commedia è un patrimonio collettivo e il lavoro di Marina Riccucci si propone di dare risonanza alle parole dei sopravvissuti «affinché si possa, anche così, capire e conoscere, per citare il titolo di un libro che racconta la testimonianza di Alfred Wetzler, un sopravvissuto al Lager, e che è uscito nel 2016, “Ciò che Dante non ha visto”».