e sempre di mirar faceasi accesa (Par. 33.99)
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Francesco Flamini dantista

a cura di Salvatore Di Gloria

Francesco Flamini dantista: alcune considerazioni e una lettera inedita

I. Notizie biografiche

Francesco Flamini nacque il 24 maggio 1868 a Bergamo.1 La famiglia, dopo un primo spostamento a Torino nel 1870, si stabilì definitivamente a Pisa nel 1881, dove il giovane completò gli studi e frequentò la Facoltà di Lettere. Flamini si formò sotto il magistero di Alessandro D’Ancona, del cui metodo storico-filologico fu continuatore ed erede diretto.2 Dopo la laurea insegnò nel ginnasio di Siracusa,3 ma già nel 1893 fu chiamato a Pisa da D’Ancona come suo collaboratore ottenendo l’incarico provvisorio a Storia letteraria.4 Inoltre, secondo la volontà del D’Ancona venne fondata la «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», che ebbe a direttori maestro e discepolo, finché nel 1911 la direzione fu tutta del Flamini.5 Nel 1895 vinse la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Messina per poi essere immediatamente trasferito a Padova (1896) subentrando a Guido Mazzoni e dove insegnò fino al 1908, anno del definitivo rientro a Pisa.6 Durante gli anni di insegnamento universitario Flamini ebbe tra i suoi allievi Luigi Russo, Giovanni Gentile, Natale Busetto, Arturo Pompeati, Vittorio Osimo, Emilio Santini, Augusto Mancini, Carlo Pellegrini, Gino Saviotti, Carmelo Sgroi, Giuseppe Raniolo e Carlo Grabher.7

Tra i volumi più significativi che vennero pubblicati dal critico negli anni sono da ricordare, oltre alle opere di critica dantesca alle quali è dedicato il presente contributo, il volume Il Cinquecento, Milano, Vallardi, 1902,8 per il quale ottenne chiara fama di cinquecentista, e il volume Varia. Pagine di critica e d’arte, Livorno, Giusti, 1905, in cui vengono raccolti dal critico diversi saggi precedentemente pubblicati in rivista e in alcuni dei quali sono contenuti già alcuni nodi esegetici fondamentali poi ripresi e sciolti in I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo (2 voll., Livorno, Giusti, 1903-1904).

Gli ultimi anni della vita di Flamini furono caratterizzati da una fervente passione politica: fin dagli anni padovani partecipò al movimento patriottico e nazionale specialmente di carattere irredentistico; negli anni della guerra, invece, fu un acceso interventista, indossava volontariamente la divisa di ufficiale di fanteria e prestò servizio presso gli uffici di censura a Bologna dove, ricorda Vittorio Osimo, passò mesi «affaticati e penosissimi» e «prese quel male di cui più anni dopo, doveva morire».9 A tal proposito è interessante anche leggere ciò che scrive Augusto Mancini:

Flamini non aveva che cinquant’anni ma il suo organismo era logoro […] una vita di lavoro tenacissimo fino dalla primissima gioventù, i dolori e le delusioni che nella vita non gli erano mancati, lo stesso spasimo della guerra, avevano colpito il suo organismo.10

Francesco Flamini muore il 17 marzo 1922 assistito all’interno della Scuola Normale Superiore di Pisa,11 a soli cinquantaquattro anni, nei quali – secondo le parole di Luigi Russo – fu «uno straordinario e instancabile lavoratore, un lavoratore che non si diede mai pace e tregua, neanche sul letto di morte».12

II. Le interpretazioni dantesche di Francesco Flamini

1. I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo

I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo è l’opera che condensa in sé il frutto degli studi danteschi del critico, avviati nel 1893 con il saggio L’ordinamento morale dell’Inferno13 e poi proseguiti con quelli confluiti nel volume Varia. Pagine di critica e d’arte.14 L’idea fondamentale dell’esegesi flaminiana è che la «chiave di volta» per l’interpretazione del testo della Commedia risieda nel commento tomistico all’Etica di Aristotele, nel quale è da ricercare il fondamento morale delle prime due cantiche, mentre la terza cantica sarebbe un trattato di teologia basato principalmente sulla Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino.15 Per Flamini la Commedia è «opera d’arte» e al contempo «di scienza e di filosofia»,16 un poema didattico e allegorico, come doveva apparire agli occhi di Dante e dei suoi contemporanei l’Eneide virgiliana; solo grazie ai loro «sensi reconditi le favole dei poeti parevano degne di ammirazione»:17 negare l’esistenza del significato allegorico della Commedia «non si può se non da lettori frettolosi o disattenti», «quando mai i cani si son cibati, non dirò di “sapienza, amore e virtute”, ma neppure di terra o di peltro?», afferma ironicamente Flamini, per poi ribadire che «la ricerca dei significati reconditi della Commedia ci condurrà a determinare con piena esattezza il fine supremo».18

2. L’interpretazione secondo i quattro sensi e l’Epistola a Cangrande

Una delle prime considerazioni di Flamini è dedicata al problema interpretativo della Commedia, in particolare prende in considerazione il famoso passo della Summa Theologiae in cui l’Aquinate tratta i quattro sensi da ricercare nel testo delle Sacre Scritture: lo «storico» o «letterale», e i tre sensi «spirituali», che si fondano su di esso e lo presuppongono, cioè l’«allegorico», il «morale» e l’«anagogico».19 Dal primo dei sensi «spirituali» dipendono e derivano gli altri due, dunque, per Flamini è necessario prima passare dal «letterale» all’«allegorico» e da quest’ultimo si dedurranno poi il «morale» e l’«anagogico», dei quali il primo «deve insegnarci quel che dobbiamo operare, l’altro deve riferirsi alle cose dell’eternal gloria».20

Proprio per quanto riguarda l’applicazione dell’interpretazione dell’opera dantesca secondo i quattro sensi scritturali il Flamini si sofferma sulla controversa esegesi dell’Epistola a Cangrande, la quale, proponendosi come «introduzione all’intero poema fatta in proposito della terza cantica», «qualora s’avesse a tenere per genuina, dovrebbe meglio d’ogni altro luogo delle opere dell’Alighieri aprirci le intenzioni di lui circa ai significati della Commedia».21 Ma, in realtà, nota Flamini che nell’Epistola non si fa altro che applicare la teoria di san Tommaso a un esempio tratto dal Vecchio Testamento, il Salmo 113 In exitu Israel de Egyptu, seguito dall’interpretazione del «soggetto» del poema.22 Una volta conclusa la lettura, per Flamini, ne sappiamo «proprio quanto prima»:23

dato e non concesso, pertanto che l’Epistola allo Scaligero sia di Dante, bisogna dire che al grande poeta, in occasione così solenne, sia piaciuto di stuzzicare il nostro appetito per poi lasciarci a stomaco vuoto. Poiché non solo l’esempio biblico da lui spiegato a parte a parte nulla ci offre che sia possibile applicare all’interpretazione d’un’azione fittizia, qual è la favola della Commedia, epperò ci lascia nella medesima incertezza riguardo al significato allegorico […] in cui ci ha lasciati S. Tommaso; ma di essa azione e del suo valore simbolico si tace in questo passo dell’Epistola interamente; mentre tutta l’attenzione vi si fa convergere sul teatro di quella, cioè sulla rappresentazione dello stato delle anime dopo la morte, ponendo mente a ciò che si descrive nel poema e non a ciò che vi si racconta. […] Sta bene: «lo stato delle anime dopo la morte» sarà «l’uomo in quanto meritando o demeritando va soggetto alla giustizia che premia o castiga»; ma ciò equivale semplicemente a dire che dalla descrizione di codesto stato scaturisce un ammonimento ad operare il bene per ottenere dopo la morte la ricompensa ed evitare la pena. Proprio questo e null’altro che questo; ossia una cosa, come si vede, molto ovvia, la quale davvero non c’era bisogno venisse a rivelarcela l’autore. Del fantastico viaggio attraverso ai regni onde il poeta descrive gli abitanti, e quindi anche delle due guide che gli son date dalla Provvidenza, degli altri aiuti ch’egli ottiene per virtù celeste e degli impedimenti che incontra sul suo cammino, di tutto quello, insomma, che costituisce la favola della Commedia, cioè il velo che, sottilissimo in più luoghi, lascia trasparire i veri spirituali allegoricamente significati per litteram, nell’Epistola a Cangrande non si fa il minimo cenno.24

In nota, inoltre, Flamini promette di trattare della questione dell’autenticità dell’Epistola nell’appendice alla sua opera, appendice che non venne mai pubblicata, così come il terzo volume, ma anticipa che «di essa tratteremo, risolvendola per conto nostro in senso negativo».25

3. L’allegoria: i primi canti del poema

Uno dei punti cardine dell’interpretazione di Flamini e sul quale torna più volte all’interno della sua opera critica è l’idea che il senso letterale della Commedia «è da tener sempre nettamente distinto dall’allegorico», in quanto «ciascuno di essi ci rappresenta un’azione per sé stante, che s’inizia, si svolge, e termina senza frammettersi all’altra».26 Perciò, si noti, per Flamini solo alcune parti del poema ci autorizzano a una interpretazione di tipo allegorico e il viaggio di Dante «adombra allegoricamente il trapasso che un’anima ha fatto dalla profonda miseria alla felicità più piena», ma questa non è «certo quella di un uomo qualsivoglia», piuttosto, quella di Dante stesso;27 perciò, per Flamini la Vita nova, il Convivio e la Commedia formano una «trilogia autobiografica», nel senso che «vi si narrano le intime vicende così dell’intelletto come dell’affetto, di chi l’ha composta».28 Dunque, spiega il critico:

la Commedia nel senso letterale è tutta un racconto di cose accadute all’autore. […] Ciò che intorno alla «vita nova» del suo «amico» e «fedele» ed al suo successivo traviamento di lui Beatrice, trionfante nell’Eden, narra agli angeli pietosi del turbamento di Dante, e ciò che in proposito ella ricorda a Dante stesso, o gli fa confessare, nel rimproverarlo solennemente de’ suoi trascorsi, non sono «bella menzogna», ma verità: onde il senso letterale quivi non si può dir velo, ma vero, ed un senso allegorico come lo intende Dante, cioè «secondo che per li poeti è usato», quivi non può avere luogo.29

L’allegoria sarà da cercare, dunque, solo e sempre «dov’è finzione poetica» escludendo le digressioni dottrinali, le invettive politiche, gli episodi storici e «tutto ciò che si riferisce alle pene dei dannati e degli spiriti purganti, ai premi dei beati».30 In tale prospettiva «il traviamento di Dante, significato figuratamente nel prologo del poema dall’aggirarsi di lui pel “loco selvaggio”, è verità, non finzione»,31 ed è proprio questo il punto di partenza dell’azione verace: «Dante, protagonista anche di questa, al cominciare trovasi non già corporalmente in una valle selvosa e oscura, ma spiritualmente nella cieca ed amara abiezione del viver peccaminoso, per essa significato».32 Per esempio, per Flamini «la valle, la contigua piaggia e il monte», cioè quei luoghi «ne’ quali o presso i quali» si svolgono «gli antefatti veraci dell’azione fittizia», sono «poetiche figurazioni di concetti astratti, ed hanno forma sensibile, ma non rispondono a nessuna obiettiva realtà».33 Inoltre, gli episodi che hanno «carattere innegabilmente allegorico» (come, per esempio, «quello delle tre fiere e del veltro, delle tre Furie, del serpente nella valletta dei principi, della visione-trionfo e delle trasformazioni del carro nel Paradiso Terrestre») per il critico devono essere collegati fra loro «col filo d’una allegoria generale», perché altrimenti «non solo si possono spiegare in mille modi disparatissimi; ma hanno tutta l’aria d’un molesto inciampo nello svolgersi dell’azione, d’un difetto volontario del capolavoro dantesco».34

III. Alcune considerazioni d’insieme

Valutare il contributo che le idee di Francesco Flamini hanno fornito alla critica dantesca a distanza di oltre un secolo dalla sua morte non è un compito facile. La stima degli allievi e l’influenza che il suo magistero esercitò sulle loro inclinazioni sono innegabilmente profonde, ma, con la fine del periodo critico che li ha visti protagonisti, le idee del maestro sono uscite dal circuito interpretativo. Oltre alla fama di cinquecentista, che Flamini aveva acquisito prima di dedicarsi allo studio sistematico delle opere di Dante, a causare l’oblio che coprì i suoi studi danteschi deve aver contribuito la loro impalcatura allegorica in un periodo in cui le tendenze critiche mutarono rapidamente, a sfavore di questa impostazione, senza che il Nostro riuscisse a adattarsi. Inoltre, La poesia di Dante (1921) di Benedetto Croce è alla base di una vera e propria frattura nella critica dantesca, perché, stando a quel fondamentale saggio, l’allegoria non è che «un prodotto pratico, un atto di volontà» e «quando l’autore di quel prodotto non lascia un espresso documento per dichiarare l’atto di volontà da lui compiuto, porgendo al lettore “la chiave” della sua allegoria, è vano ricercare e sperare di fissarne in modo sicuro il significato».35 Per Croce, «nella poesia e nella storia della poesia le spiegazioni delle allegorie sono affatto inutili e, in quanto inutili, dannose».36 Dunque, un’opera come quella del Flamini, per quanto fosse sostenuta da un metodo piuttosto rigoroso e fondata su un’attenta lettura dei Padri della Chiesa e, in particolare, dell’Aquinate, doveva certo essere considerata superata alla luce delle osservazioni di Croce. A ciò si aggiunge il fatto che la polemica che il critico pisano ebbe con Pascoli, nei confronti del quale rivendicava l’originalità delle proprie conclusioni, dovette rendere le due opere per lo meno complanari e, dunque, relegate a un’idea di critica non più praticabile sull’opera dantesca.37 D’altra parte, di certo Flamini non si può collocare nell’ambito stretto della ‘nuova filologia’ di matrice barbiana, e resta insomma a metà del guado fra il magistero di D’Ancona e quello del Barbi maturo.

Detto ciò, è indubbio che alcune delle posizioni critiche espresse da Flamini siano ancora oggi degne di nota: le considerazioni sulla dubbia genuinità dell’Epistola a Cangrande, l’idea che vi sia un profondo legame tra la Vita nova e la Commedia, che Beatrice sia nelle due opere la stessa donna reale amata in vita da Dante, l’idea che la valle del paesaggio dantesco non sia un luogo reale ma una «poetica figurazione», ecc., sono tutte posizioni che nel panorama critico moderno mantengono la loro validità. La stessa lettura del poema tentata da Flamini attraverso il tomismo più rigorosamente aristotelico non è di certo una strada che non sia stata poi praticata e, anzi, per certi aspetti necessita ancora di essere battuta, benché ormai si sia ben consapevoli anche delle differenze di Dante rispetto al pensiero di Tommaso.38 Si noti, infine, l’attenzione che Flamini ha dimostrato per alcuni dei passi controversi della Commedia, come per esempio: l’interpretazione del pié fermo, che sarebbe un modo per descrivere l’incedere di Dante per un pendio così lieve da dare l’impressione di stare camminando in piano lungo la piaggia;39 la natura della lonza dantesca;40 l’allegoria delle tre fiere, identificate con le «disposizioni al peccare», la lonza sarebbe «la malizia», il leone «la malizia bestiale», la lupa «l’incontinenza»;41 il passaggio del fiume Acheronte, interpretato come «un’infrazione recata alle “leggi d’abisso”», che avviene «per un atto del Valor Primo», il tuono da cui Dante viene svegliato invece annuncerebbe il «compiersi dell’atto stesso» e come nelle Scritture anticipa le «divine rivelazioni»;42 ecc. Flamini fu inoltre il primo a leggere l’acrostico «LVE» in Paradiso XIX 115-141.43 Di certo, la sua opera merita una riconsiderazione d’insieme per essere ricollocata adeguatamente nell’ambito della dantistica pisana e italiana tra Otto e Novecento.

Appendice

Una lettera inedita di Francesco Flamini a Michele Barbi44

Padova, 5 I 1900

Carissimo mio,

sta tranquillo. Le prossime due lezioni all’Università saranno sul passo famoso e due dirò sull’Inferno | e sulla visione finale della V.[ita] N.[ova] |. Le scriverò e quindi potrò ricavarne subito senz’altro la recensione. Puoi contare di averla verso il 15.

Quanto alle recensioni al Pascoli, non è più il caso di parlarne. Sto scrivendo un libro sui Quattro sensi della Commedia e la storia latina di Dante

L’ho pensato tutto. Son certo che ti andrà a genio, perché conosco le tue opinioni.45 Le tre disposizioni = uguali alle 3 fiere (malitia simpliciter dicta, malitia bestialis o bestialitas e incontinentia) sono la chiave di volta. Ho riletto con somma attenzione, badando a quel che qui mi premeva, tutta la Divina Commedia, tutto il Convivio e tutto il De Mon.[archia] e tutta la V.[ita] N.[ova] (1).46 Vedrai che la mia ricostruzione rimedia colla massima naturalezza a tutte (dico tutte!) le difficoltà. Io te ne manderò a suo tempo, via via, le bozze; perché nulla voglio dire agli studiosi senza prima averlo detto a te e senza avere sentita la tua opinione, per me, come sai, sommamente autorevole.

Manco a dirlo! Nei tre gironi del 7° cerchio sono puniti quelli che | obbedendo alla |47 disposizione bestiale han recato [?]48 altrui ingiuria (malitia) con la violenza.49 La violenza è un modo di operare malizia a fine d’ingiuria che tiene dell’umano e del ferino; simbolo: il Minotauro, concetto di bestialità. Il libro del Bottagisio50 giova solo pel cerchio I° (infidelitas) e il 6° (haeresis), i due peccati negativi.51

Buonissime e da adattarci le disposizioni dell’incontinenza sin da te rilevate nella recensione allo Scherillo!52

Il mio libro avrà, spero, anche un altro effetto: di dare il colpo di grazia all’epistola canina, si ben adorna di spropositi e di stupidaggini, opera d’un qualche lettore del Paradiso che s’è divertito (vivo Dante, forse) a ricavare dagli scritti del Poeta quel bell’esercizio retorico in persona dell’Alighieri.

Dice il Torraca,53 concludendo la sua difesa: «che ha scoperto di più esatto, di più profondo la critica dantesca antica e moderna»?54 Alla larga! Il mio libro non farà che mettere in luce nuova quello che via via la critica moderna ha messo in sodo sull’argomento da me preso a trattare. E la critica moderna ha fatto molto lavoro! Basta fare quel che farò: sintetizzare secondo un concetto nuovo e ragionato. Naturalmente il significato di qualche simbolo sarà un poco spostato.

Scrivimi che ti pare del mio proposito, e seguita ad amare chi ti vuol tanto bene e ti stima tanto.

Buon anno!

Tuo F. Flamini

Scusa la fretta!

Bibliografia

I. Scritti di Francesco Flamini citati

Flamini, Francesco, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, ristampa anastatica, Presentazione di G. Gorni, Firenze, Le Lettere, 1977 (ed. orig.: Pisa, Nistri, 1891)

Id., Spigolature di erudizione e di critica, Pisa, Mariotti, 1895

Id., I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo, 2 voll., Livorno, Giusti, 1903-1904

Id., Varia. Pagine di critica e d’arte, Livorno, Giusti, 1905

Id., Un problema d’ermeneutica dantesca. Che bestia era la lonza?, in «La Rassegna», s. III, a. XXIV, vol. I, 1916, pp. 94-103

 

II. Bibliografia secondaria

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Capecchi, Giovanni, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli. Con appendice di inediti, introduzione di M. Biondi, Ravenna, Longo, 1997

Casadei, Alberto, Un poema che diventa sacro. La progettualità e la poetica di Dante, Firenze, Franco Cesati Editore, 2024

Ciotti, Andrea, Pellegrini, Carlo, Francesco Flamini, in I critici. Storia monografica della filologia e della critica moderna in Italia, diretta da G. Grana, Milano, Marzorati, 1970

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Floriani, Pietro, Italianisti a Pisa: da Alessandro D’Ancona a Luigi russo (1861-1961), in «Annali di Storia delle Università Italiane», 14, 2010, pp. 141-150

Gonelli, Lida Maria, Dalla «scuola storica» alla «nuova filologia», in «Annali di Storia delle Università Italiane», 15, 2011, pp. 53-65

Gorni, Guglielmo, Il Dante perduto. Storia vera di un falso, Torino, Einaudi, 1994

Martinelli, Luciana, Francesco Flamini, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 943-944, disponibile online al sito: https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-flamini_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

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Nardi, Bruno, Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di “Storia e Letteratura”, 1944

Id., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1949

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Pellegrini, Carlo, Francesco Flamini. A quarant’anni dalla morte, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, vol. 32, n. 1/2, 1963, pp. 1-10

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Id., La critica italiana contemporanea, nuova edizione, Firenze, Sansoni, 1967

Santini, Emilio (a cura di), Ricordi e studi in memoria di Francesco Flamini, Napoli, Perrella, 1931

Singleton, Charles Southward, La poesia della Divina Commedia (1978), Bologna, Il Mulino, 1992 (edizioni originali: Commedia. Elements of Structure, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1957; Journey to Beatrice, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1958)

Strappini, Lucia, Francesco Flamini, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XLVIII, 1997, disponibile online al sito: https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-flamini_%28Dizionario-Biografico%29/

1 Nato da Giulio Flamini e Adele Siepi, ultimo di dieci figli. Alla «genitrice amata e virtuosa» è dedicata la prima prova letteraria di Flamini dal titolo Le cure di mia madre (Pisa, Mariotti, 1881), libello autobiografico in cui raccoglie i ricordi d’infanzia e gli insegnamenti della madre. La parte centrale del libro è occupata da «ragionamenti» morali della madre intorno le virtù e i vizi affinché il giovane potesse, conoscendoli, «quelle praticare, questi con ogni cura sfuggire». Per le informazioni di base sulla biografia si farà riferimento al Dizionario Biografico degli Italiani (Roma, Treccani), s.v. Flamini Francesco, di L. Strappini, vol. XLVIII, 1997, disponibile online al sito https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-flamini_%28Dizionario-Biografico%29/. Da ora in poi citato come DBI, s.v. Flamini Francesco. Flamini ebbe dalla moglie Polissena Fanelli quattro figli: Gilda, Lina, Beatrice e Giulio Cesare. Ringrazio qui il professore Alberto Casadei per avermi seguito durante le ricerche su Francesco Flamini per la mia tesi di laurea magistrale, discussa a Pisa in data 20/11/2024. Ringrazio la dottoressa Maddalena Taglioli per il supporto nella fruizione dei documenti conservati presso l’Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Infine, ringrazio gli eredi della famiglia Flamini Bonelli, Rosanna per le informazioni sulla famiglia di Francesco Flamini e, in particolare, Chiara per la sua disponibilità e per l’entusiasmo che ha dimostrato per questi studi.

2 Flamini collaborò alla «Rivista critica della letteratura italiana» dal 1887. Nel 1888 venne pubblicato il suo primo saggio sugli «Annali della Scuola Normale di Pisa»: Sulle poesie del Tansillo di genere vario. La sua tesi di laurea, discussa con D’Ancona, ebbe come argomento e titolo La lirica toscana e del Rinascimento ai tempi del Magnifico e venne pubblicata sugli «Annali» prima e in volume nel 1891 (Nistri, Pisa), il volume è stato poi ripubblicato nel 1977 in ristampa anastatica con una Presentazione di G. Gorni (Firenze, Le Lettere), che scrive: «il valore insostituibile del libro […] precisamente consiste in quella rara diligenza di censimento della tradizione manoscritta, e in quel fiducioso accertamento dei dati biografici dei suoi autori. Dal vasto, spesso farraginoso inventario di cose e di persone, chi ha occhi per vedere e chiede fatti, non parole, ricava ancora utili strumenti e suggerimenti» (pp. VII-X).

3 Cfr. C. Pellegrini, Francesco Flamini. A quarant’anni dalla morte, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Serie II, vol. 32, n. 1/2, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1963, p. 3.

4 Cfr. L.M. Gonelli, Dalla «scuola storica» alla «nuova filologia», in «Annali di Storia delle Università Italiane», Bologna, CLUEB, 15, 2011, pp. 62-64.

5 Nel 1916 venne chiamato a collaborare Achille Pellizzari. Nello stesso anno 1893 si pubblicava a Firenze il primo numero del «Bullettino della Società Dantesca» a cura di Michele Barbi, anche lui discepolo di D’Ancona e compagno di studi del Flamini. Cfr. A. Mancini, Francesco Flamini (Ricordi e Appunti), in Ricordi e studi in memoria di Francesco Flamini, a cura di E. Santini, Napoli, Francesco Perrella, 1931, pp. 11-12.

6 Nota Lida Maria Gonelli che, invece, «meno protetta» fu la carriera di Barbi, sempre in una posizione «un po’ arretrata rispetto al suo coetaneo», basti pensare al fatto che quando vinse la cattedra a Messina nel 1903 «a Messina dovette andare davvero, lontano da archivi e biblioteche, che erano i luoghi per eccellenza del suo lavoro». Cfr. L.M. Gonelli, Dalla «scuola storica» alla «nuova filologia», cit., pp. 62-64. Carlo Dionisotti – citato da Gorni in Il Dante perduto – nota che a occupare la cattedra pisana lasciata dal D’Ancona era arrivato Vittorio Cian, allievo a Torino del Graf e del Renier, «e perciò appunto a Messina, volente o nolente, andò il Barbi». Una cattedra che non venne ceduta a nessuno dei due allievi perché – ipotizza Gorni – comunque il D’Ancona aveva conservato per incarico l’insegnamento dell’esegesi dantesca «come cosa specialmente sua». Ma il motivo per il quale D’Ancona non fosse disposto a dare intera fiducia al Barbi è spiegato avvalendosi ancora una volta del giudizio di Dionisotti, secondo il quale, dopo che Flamini era stato chiamato da Padova nel 1908, «l’esclusione del Barbi da Pisa, dove aveva iniziato la sua carriera universitaria come incaricato nel 1896, non si spiega senza quella “avversione da lui incontrata nel D’Ancona e ancora di poi perpetuatasi in circoli accademici di Firenze”, che l’ignaro e credibile Luigi Russo non mancò di registrare nella sua commemorazione pisana del Barbi». Cfr. G. Gorni, Il Dante perduto. Storia vera di un falso, Torino, Einaudi, 1994, pp. 62-63. Si veda inoltre L. Russo, Michele Barbi e la nuova filologia, discorso letto nella commemorazione tenuta presso la R. Scuola Normale Superiore di Pisa il 28 maggio 1942, in Id., La critica italiana contemporanea, nuova edizione, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 46-68.

7 Cfr. L. Russo, Ricordo di Francesco Flamini, in «Belfagor», XVI, 1961, p. 223. Alcuni di loro come, oltre a Russo, Osimo e Pellegrini, lo ricordarono con affetto in alcuni interventi in sua memoria: «Mi ritrovai con l’antico maestro a Pisa, dal 1911 al ’15; e furono anni di inobliabile sodalizio. Egli era passato a raccogliere l’eredità del D’Ancona, e la teneva con impareggiabile valore e con esemplare dignità. Era sempre giovane, operosissimo, di una mirabile vivacità mentale e spirituale. Veniva anche al liceo, dove io insegnavo italiano, a fare lezioni di magistero» (V. Osimo, Ricordi padovani e pisani in Ricordi e studi in memoria di Francesco Flamini, cit., p. 21). Alle «lezioni di magistero» a cui fa cenno Osimo partecipò in quegli anni lo stesso Luigi Russo, lezioni delle quali racconta facendo riferimento all’«eccellente metodo» del maestro, «che allora si voleva dire metodo pedagogico»: «ci conduceva tutti al liceo classico della città, dove insegnava Vittorio Osimo, suo antico scolaro di Padova, e a turno, secondo la giornata il candidato doveva svolgere la lezione che avrebbe dovuto fare il titolare». Invece, riguardo al rapporto che ebbe con il proprio maestro, Russo scrive: «il Flamini aveva questa grande qualità: prima della guerra mondiale, aveva attuato quei rapporti democratici con gli studenti, che gli altri professori non usavano. Un’enorme distanza tra il docente e lo scolaro. Il Flamini invece mi prendeva a braccetto e veniva passeggiando con me pei Lungarni» (L. Russo, Ricordo, cit., p. 220). Scrisse Pellegrini sul carattere di Flamini che «l’uomo […] era tale da guadagnarsi l’affetto dei giovani che a lui si avvicinavano. In un periodo in cui i rapporti fra professori e studenti universitari erano in genere distanti e cerimoniosi, il Flamini sentiva il bisogno di mettersi con i giovani su un piano di cordialità affettuosa, non appena gli sembrava di scorgere in loro una sincera passione per gli studi» (C. Pellegrini, Francesco Flamini, cit., p. 1).

8 Riguardo a questo volume, scrive Antonio Marzo: «mettendo a frutto le ricerche erudite, filologiche e storiche condotte nel corso di tanti anni, egli ricostruisce l’ampio e articolato quadro nel quale riconduce e spiega le figure principali del secolo XVI e le loro esperienze letterarie» (A. Marzo, Francesco Flamini, in Censimento dei commenti danteschi. 2. I commenti di tradizione a stampa (dal 1477 al 2000) e altri di tradizione manoscritta posteriori al 1480, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 473-474). Secondo Lucia Strappini esso è «la prova più chiara» dell’indole del Flamini di indagare e di analizzare ogni testo grazie a una conoscenza «di prima mano», applicando esami estremamente scrupolosi al materiale e circondando ogni aspetto della sua ricerca «di una messe di osservazioni e di indicazioni storiche, bibliografiche ed erudite, con quella tensione verso l’oggettività e la scientificità della storia e della critica letteraria», che mettono in luce la sua piena adesione all’impianto positivista della cosiddetta Scuola storica (Cfr. DBI, s.v. Flamini Francesco). Per Luigi Russo, Flamini fu uno dei migliori rappresentanti di quella Scuola, «ma fu anche uno degli ultimi nel senso temporale: e si sa che i colpi si calano più gravi sulle ultime schiere» (Cfr. L. Russo, Ricordo, cit., p. 223). Inoltre, l’opera venne criticata da studiosi come Vittorio Cian (in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXIX, 1922, pp. 395-8) e Antonio Medin (in «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», LXXI, 1921-1922, I, pp. 57-63).

9 V. Osimo, Ricordi, cit., pp. 22-3.

10 A. Mancini, Francesco Flamini, cit., p. 18.

11 «Caso singolare e drammatico» – commenta Piero Floriani. Cfr. P. Floriani, Italianisti a Pisa: da Alessandro D’Ancona a Luigi Russo (1861-1961), in «Annali di Storia delle Università Italiane», 14, 2010, p. 146. A tal proposito, nel verbale redatto durante l’adunanza del 19 gennaio1920 del Consiglio Direttivo della Scuola si legge: «Viene data lettura di una lettera del prof. Francesco Flamini, ordinario di Lettere italiane in questa Università, con la quale offre in dono, sin da ora, alla Scuola, insieme agli scaffali relativi, la biblioteca di sua proprietà […]. Chiede in cambio del dono che gli sia concesso di studiare e dormire in mezzo ai libri nella stanza che la Scuola destinerebbe ad essi» (Processi verbali, n. 4, dal 28 gennaio 1914 al 25 novembre 1929, pp. 70-71). Mentre, nel verbale del 17 febbraio 1922 alle ore 17 (Ivi, p. 92) presso il Centro archivistico della Scuola si legge: «[…] Viene scusata l’assenza dei proff. Ambrosi e Flamini, il quale è impedito perché gravemente infermo. Il Direttore, interpretando il pensiero di tutti i presenti, esprime i più caldi voti per la salute del caro collega augurando che presto egli possa ritornare, completamente ristabilito, alle sue occupazioni […]».

12 L. Russo, Ricordo, cit., p. 224.

13 Si veda F. Flamini, Spigolature di erudizione e di critica, Pisa, Mariotti, 1895.

14 Dante e il dolce stile (pp. 1-24), Il trionfo di Beatrice (pp. 25-46), I significati e il fine del poema sacro (pp. 47-80) e Nel cielo di Venere (pp. 81-115). Essi sono il frutto di conferenze e letture tenute dal Flamini tra il 1900 e il 1903: Dante e il dolce stile è il risultato di una conferenza tenuta il 23 aprile 1899 nell’Accademia scientifico letteraria di Milano su invito della Società Dantesca Italiana, pubblicata in forma diversa nella «Rivista d’Italia» (15 giugno 1900); Il trionfo di Beatrice è una lettura dantesca tenuta a Padova il 15 aprile 1902 e già pubblicata in occasione del matrimonio del professore Vittorio Polacco (Padova, Salmin, 1902); I significati e il fine del poema sacro è il testo di una conferenza tenutasi per la prima volta il 3 marzo 1901 nell’Ateneo di Treviso e poi il 1° aprile nell’Ateneo di Venezia, pubblicata poi con un altro titolo e un’altra forma nel «Giornale dantesco» (a. IX, quad. IV-VI, 1901); infine, Nel cielo di Venere è il commento al canto IX del Paradiso, letto a Firenze in Orsanmichele il 26 febbraio 1903 e del quale erano già stati stampati due tratti nella Miscellanea di studi critici in onore di A. Graf (Bergamo, 1903, pp. 645-8). Tra i saggi precedenti I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo è da aggiungere la Lectura Dantis. Il canto XII del Purgatorio letto nella sala di Orsanmichele, Firenze, Sansoni, 1904, ora in Letture dantesche. Purgatorio, a cura di G. Getto, ivi, 1966, pp. 907-920.

15 Dalle lettere inedite di Francesco Flamini inviate al maestro Alessandro D’Ancona e al collega Michele Barbi nei primi giorni del gennaio 1900 sappiamo che per il critico «la chiave di volta dell’allegoria dantesca sono le tre disposizioni che il ciel non vuole rappresentate in principio nelle tre fiere» e utilizzate poi per la tripartizione dell’inferno dantesco. Cfr. Lettera di Francesco Flamini ad Alessandro D’ancona (Padova 2 gennaio 1900), conservata presso il Centro Archivistico della Scuola Normale Superiore di Pisa, fondo Alessandro D’Ancona, Carteggio, fascicolo Francesco Flamini. Si pubblica integralmente qui di seguito e accompagnata da note di commento la lettera di Flamini a Barbi.

16 F. Flamini, I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo, vol. I, Livorno, Giusti, 1903, p. 12.

17 Secondo Flamini era nelle intenzioni di Dante dare all’Italia «un poema didattico-allegorico, proprio come il Roman de la rose, o il Tesoretto». Ivi, p. 15.

18 Ivi, pp. 14-15.

19 Ivi, pp. 33-34.

20 Ivi, p. 35. Sull’allegoria e la teoria tomistica dei quattro sensi e il loro rapporto con l’Epistola a Cangrande si veda almeno: B. Nardi, Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di “Storia e Letteratura”, 1944, pp. 56-61; J. Pépin, Dante et la tradition de l’allégorie, Parigi, Institute d’études Médiévales – Vrin, 1970; Id., La théorie dantesque de l’allégorie, entre le Convivio et la Lettera a Cangrande, in Dante. Mito e poesia, a cura di M. Picone e T. Crivelli, Firenze, Franco Cesati Editore, 1999, pp. 51-64. Già nel Convivio, seguendo le teorie tomistiche, Dante distingue tra «allegoria dei teologi» e «allegoria dei poeti» (Convivio, II I 5). Come osserva Bruno Nardi, i grammatici distinguevano solo due sensi secondo i quali una scrittura si potesse interpretare: «il senso letterale e quello allegorico», ossia, come scrive Dante nel Convivio (II I 4), la «veritade ascosa sotto bella menzogna». I teologi, invece, intendono diversamente i quattro sensi, in quanto tutti i fatti biblici che possono essere considerati «meravigliosi», per i teologi medievali, sono «avvenimenti realmente accaduti» e il senso allegorico è anche detto da essi senso «storico», e in esso, «prima che in altro senso, va cercata la verità» (Cfr. B. Nardi, Nel mondo di Dante, cit., pp. 55-56). Dunque, come nota Pépin, nell’ottica di san Tommaso l’Antico Testamento non è solo allegoria in verbis, ma anche allegoria in factis, e solo la Scrittura «est capable de contenir un sens spirituel» mentre «le discours proprement humain n’offrant jamais que son sens littéral». La difficoltà maggiore, secondo Pépin, sta nel far convergere la posizione tomistica e l’Epistola a Cangrande perché è proprio «l’allégorie biblique stricto sensu que ce document se propose d’appliquer à l’intelligence de la Comédie», contro quanto era stato teorizzato dall’Aquinate (Cfr. J. Pépin, Dante et la tradition de l’allégorie, cit., pp. 69-74).

21 F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 36.

22 Ivi, p. 37.

23 Ivi, p. 38.

24 Ivi, pp. 39-40. Qui Flamini nota: «sul duplice soggetto l’Epistola ritorna più sotto […] in proposito della sola terza cantica. Nel Paradiso il soggetto è lo “stato delle anime dopo la morte”, cioè in senso allegorico “l’uomo in quanto, meritando, va soggetto alla Giustizia premiante”. Prendiamo, adunque, un’anima beata: per es. Folco di Marsiglia. Letteralmente, questi sarà una “luculenta e cara gioia”: allegoricamente, un uomo che per aver amato come si conviene gode dell’eterno premio nella sfera celestiale. Ecco tutto quello che c’insegna in tal proposito la decantata Epistola!». Ivi, p. 39, nota 2.

25 Tali considerazioni non sono coerenti con quanto aveva scritto in merito Ciotti: «il problema dell’allegoria viene esaminato alla luce della più antica esegesi del poema, a cominciare dall’Epistola a Cangrande che gli sembra, a parte la questione dell’autenticità che viene lasciata aperta, il testo da esaminare per primo». Il corsivo è mio. Cfr. A. Ciotti, Francesco Flamini, in I critici. Storia monografica della filologia e della critica moderna in Italia, Milano, Marzorati, 1970, p. 455. Si veda F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 38, nota 1. Inoltre, I dubbi in merito all’autenticità dell’Epistola a Cangrande sono esplicitamente confermati nella già citata lettera a Michele Barbi del 5 gennaio 1900, nella quale Flamini scrive: «il mio libro avrà, ispero, anche un altro effetto: di dare il colpo di grazia all’epistola canina, si ben adorna di spropositi e di stupidaggini, opera d’un qualche lettore del Paradiso che s’è divertito (vivo Dante, forse) a ricavare dagli scritti del Poeta quel bell’esercizio retorico in persona dell’Alighieri». Si veda qui la trascrizione completa.

26 Secondo il critico, per esporre «l’azione verace» del poema, ovvero «l’ascosa verità dataci dall’allegoria», è necessario «muovere dal significato letterale, fondamento di tutti i sensi delle scritture, e sott’esso, nei termini di quella fittizia azione, scoprire l’azione che il poeta vuol farci credere storia e non favola». Cfr. F. Flamini, I significati reconditi della Commedia di Dante e il suo fine supremo, vol. II, Livorno, Giusti, 1904, pp. 3-4. Cfr. Id., I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 61.

27 Id., I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 55. In questo, e in altri punti (anche fondamentali), l’interpretazione di Flamini si differenzia da quella di Singleton, cioè quel critico le cui idee possono essere in maggior modo paragonate retrospettivamente a quelle del Nostro. Leggiamo: «Nel viaggio letterale il protagonista è determinato: possiamo dire chi sia. È Dante, fiorentino “natione, non moribus”. L’immagine corrispondente, la figura-ombra dell’allegoria, non ha invece un’identità determinata. È semplicemente “chiunque”: chiunque, cioè, scelga (e venga scelto, per grazia di Dio) di procedere sul cammino della mente che conduce a Lui in questa vita. Nell’allegoria, il viandante è qualsiasi cristiano: è l’homo viator; ma, a rigor di termini, non è Ogni Uomo (Everyman). È piuttosto Qualsiasi Uomo (Whicheverman): chiunque, cioè, possa esser scelto per questo viaggio a Dio, mentre vive ancora in questo mondo, dove tutti, volenti o nolenti, siamo viandanti». Si veda C.S., Singleton, La poesia della Divina Commedia, Bologna, Il Mulino, 1992, in particolare p. 139.

28 F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 59. Per esempio, per Flamini la natura simbolica di Beatrice può essere spiegata senza necessariamente negarne la realtà storica e «la Beatrice della Vita Nova non è altra cosa da quella della Commedia». Cfr. Id., I significati reconditi…, vol. II, cit., pp. 179-81. Flamini – e in ciò d’accordo con il maestro D’Ancona (pp. 43-44) – già in Il trionfo di Beatrice (1902) aveva negato la possibilità che Beatrice sia «puro simbolo» (p. 30), esprimendosi a favore dell’identità tra la Beatrice esaltata da Dante nella Commedia e una donna reale in quanto «Dante non plasma figure astratte a significazione di questo o quel suo pensamento: egli muove dal concreto, dal reale, e sotto vi nasconde il simbolo» (p. 32); ma allo stesso tempo nell’interpretazione del Flamini, quella di Beatrice non è nemmeno «pura realità» (p. 42): sotto «il velo della finzione» (p. 35) essa è «simbolo» della «Verità Rivelata». Beatrice è dunque donna reale e simbolo ad un tempo, viva nel giovenile libretto, salita da carne a spirito nell’opera immortale della maturità di Dante» (p. 39). Cfr. F. Flamini, Il trionfo di Beatrice, in Id., Varia Pagine di critica e d’arte, Livorno, Giusti, 1905, pp. 25-46.

29 Id., I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 50.

30 Ivi, pp. 60-61.

31 Cfr. Ivi, pp. 50-52 e 58.

32 F. Flamini, I significati reconditi…, vol. II, cit., pp. 4-5. A tal proposito si veda la lettura di Giovanni Getto: «Dante non è un autentico poeta della paura, almeno della paura infernale e funebre, dell’oltretomba, dello spettrale e del tenebroso. I suoi morti e le loro parole, i suoi diavoli e le loro imprese, le sue visioni e i suoi spettacoli d’oltretomba non ci comunicano nessun brivido. […] E quel verso che vuol riassumere conclusivamente la realtà della selva e il sentimento in essa vissuto, “Tant’è amara che poco è più morte” (7), acquista un significato diverso e sembra affermare qualcosa di meno incontrollato rispetto alla paura, trasformandosi dall’ordine dell’emozionale su di un piano di precisa responsabilità razionale e morale. Non si tratta più di un tremore della carne, ma di un’esperienza angosciosa e disperata di peccato, dove la paura semmai è paura della morte seconda della morte dell’anima. Qui ormai l’allegoria preme e trasforma la selva oscura, spazialmente e sensibilmente determinata, nella simbolica “immensa silva plena insidiarum et periculorum”, di cui parla sant’Agostino [Conf., X, 35]». Cfr. G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Firenze, Sansoni, 1966, p. 3.

33 F. Flamini, I significati reconditi…, vol. II, cit., pp. 10-11.

34 Ivi, pp. 115-116.

35 B. Croce, La poesia di Dante, cit., p. 4.

36 Ivi, p. 13. A proposito, si tenga comunque presente che «come hanno poi ricordato Contini, e in toni polemici, Edoardo Sanguineti, quella crociana era la via da perseguire per collocare la Divina commedia, in un’effettiva dimensione letteraria e critica, dopo i tanti eccessi di tipo contenutistico e ideologico della stagione ottocentesca». Cfr. A. Casadei, Un poema che diventa sacro. La progettualità e la poetica di Dante, Firenze, Franco Cesati Editore, 2024, p. 11.

37 In quegli stessi anni Giovanni Pascoli pubblicò Minerva Oscura. Prolegomeni: la costruzione morale del poema di Dante (Livorno, Giusti, 1898). Nel 1899 Pascoli ha l’occasione di leggere le prime recensioni alla Minerva: in sua difesa inizia a comporre Intorno alla Minerva oscura. Lettera a Francesco Flamini (un lavoro di trentatré fogli manoscritti rimasto inedito e conservato presso l’Archivio di Castelvecchio sino alla pubblicazione nel volume G. Capecchi, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli. Con appendice di inediti, introduzione di M. Biondi, Ravenna, Longo, 1997) e lo annuncia in una lettera allo stesso Flamini. Cfr. Ibidem e nota 430. Pascoli spiega di essersi rivolto a Flamini perché è per lui «uno dei più autorevoli», ma non nasconde il proprio malumore nei suoi confronti per non aver compreso Minerva oscura nel saggio in cui ripercorreva la letteratura italiana dell’ultimo trentennio che aveva presentato in Francia durante il Congresso bibliografico internazionale di Parigi nel 1898 (La littérature italienne de 1868 à 1898, in «Congrés bibliographique international tenu à Paris du 13 au 16 avril 1898», I, Parigi, Société Bibliographique, 1900 pp. 261-79). Flamini cerca di scusarsi, ma senza successo. In una missiva del 6 aprile 1900 al poeta si lamenta per il suo silenzio e chiede notizie dell’opuscolo dantesco. Cfr. G. Capecchi, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli, cit., p. 146. Queste tensioni portarono tra il 1903 e il 1904 a una vera e propria frattura nel loro rapporto. Nell’introduzione al primo volume de I significati reconditi… (1903), dopo aver fatto notare che in opere di sintesi come la sua non è possibile dilungarsi eccessivamente a «esporre» e «ribattere» ciò che altri hanno già osservato, Flamini conclude dicendo che, per esempio, sarebbe stato impossibile farlo con «quell’ampio e complicato sistema d’esegesi della Commedia che un caro ed illustre amico nostro, Giovanni Pascoli, è venuto per lunghi anni meditando, ed ultimamente ha esposto in volumi poderosi!». Dunque, nella Prefazione alla Prolusione al Paradiso, Pascoli fa notare come Flamini, che con poche parole liquida i suoi studi danteschi, in realtà «tanto accetta» dei suoi tre libri sul tema e aggiunge in nota che «il Flamini così parco nel dichiarare dove io mi accordo con lui, o esso si accorda con me», non tralascia di ribattere le «menome coserelline» in cui gli sembra che cada in fallo e pur convinto dell’esattezza di buona parte delle teorie dantesche del Pascoli «si perita di dirlo». Allora, nel secondo volume de I significati reconditi… (1904), dopo aver ringraziato l’amico per le parole di stima e di amicizia e dopo aver ribadito il rispetto per le sue teorie, Flamini scrive: «ma il Pascoli non dubita d’asserire, che molto io “accetto” da’ suoi tre libri. E qui debbo affrettarmi ad asserire, alla mia volta, nel modo più reciso e più esplicito, che il sistema d’interpretazione che espongo in questi volumi, è nato e si è svolto del tutto indipendentemente dal suo». Pascoli a questo punto prepara uno scritto che avrebbe dovuto essere pubblicato sul «Giornale Storico della Letteratura Italiana»; come si apprende da una lettera del 21 aprile 1904 al Renier, Pascoli chiede di poter pubblicare «una lunga nota dantesca, diretta al Flamini, un pochino polemica, ma non cattiva». Lo scritto è rimasto conservato tra le carte di Castelvecchio e vi si apprende che: dicendo che Flamini «tanto accetta» delle sue teorie, Pascoli voleva semplicemente dire che lo studioso «è tanto d’accordo» con lui. Ma la frase non è stata capita e la risposta, «brusca e solenne», «ha fatto rimaner male quest’uomo, pieno di buona volontà, che cerca invano da un pezzo chi almeno discuta con lui!». Cfr. G. Capecchi, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli, cit., p. 173-174. In seguito, i rapporti tra i due si interruppero. Solo nel novembre del 1906 il poeta di Castelvecchio torna a farsi vivo con Flamini, che nel frattempo, in qualità di presidente del Comitato padovano della Società Dantesca Italiana, il 13 febbraio 1904 l’aveva invitato a tenere una lettura o una conferenza dantesca. In una lettera del 1906, conservata presso l’Archivio di Castelvecchio, Flamini si dice contento di aver ricevuto una lettera cordiale dal poeta, smentendo così le dicerie sul fatto che fosse adirato con lui. Come scrive Capecchi – «noi oggi sappiamo che non si trattava affatto di dicerie: ma quando la rabbia si è assopita e la piaga si è, almeno in parte, rimarginata, l’amicizia può riprendere, anche se non sarà fraterna come prima». Cfr. Ivi, pp. 175-176.

38 Dell’ampia bibliografia ormai disponibile, si ricordano qui solo le fondative ricerche di Bruno Nardi in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (prima ed. 1930) e in Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1949 (prima ed. 1941). In particolare, scrive Nardi: «Dante conosce certamente alcuni scritti tomistici e ne fa uso; ma molto più spesso egli cita opere di Alberto Magno, che sono state per lui una ricca miniera di informazioni dottrinali e dalle quali proviene, in gran parte, quella forte tinta neoplatonica, e per niente tomistica, che colorisce tutto quanto il pensiero filosofico del Poeta» (Id., Saggi di filosofia dantesca, cit., p. IX); e, ancora, «dicono si sia non poco esagerato nel giudicare dell’importanza del pensiero filosofico di Dante e nell’attribuirgli una qualche originalità. Io oserei affermare piuttosto che si sia caduti nel difetto opposto, sostenendo, come s’è fatto da molti in questi ultimi tempi, che la filosofia dell’Alighieri è in sostanza quella del “buon frate Tommaso d’Aquino”. […] l’agostinianismo, il tomismo, lo scotismo, l’averroismo sono soltanto le meno ignorate fra le molte e varie tendenze che l’occhio esercitato distingue nella complessità del pensiero del secolo XIII; attorno ad esse, altre ve ne sono e non meno degne d’esser conosciute, come, per esempio, quella che trae impulso da Alberto Magno, alla cui dottrina ha largamente attinto l’Alighieri» (Id., Dante e la cultura medievale, cit., pp. IX-XVI).

39 Cfr. F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 77-93.

40 Si veda F. Flamini, Un problema d’ermeneutica dantesca. Che bestia era la lonza?, in «La Rassegna», s. III, a. XXIV, vol. I, 1916, pp. 94-103.

41 Cfr. Ivi, p. 127-8.

42 F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 216 e nota 1.

43 Cfr. L. Baldelli, Acrostico, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970, disponibile online al sito: https://www.treccani.it/enciclopedia/acrostico_(Enciclopedia-Dantesca)/.

44 Lettera di Francesco Flamini a Michele Barbi (Padova, 5 gennaio 1900), conservata presso il Centro Archivistico della Scuola Normale Superiore di Pisa, fondo Michele Barbi, Carteggio, fascicolo Francesco Flamini. Le aggiunte e le correzioni sono integrate direttamente a testo; eventuali rientri a destra della paragrafatura dopo un a capo sono rispettati; i cambi di pagina non sono segnalati; le abbreviazioni sono sciolte tra parentesi quadre; con il segno «|», posto a inizio e fine del passo, sono indicate le parti inserite al di sopra del rigo; i referenti sono tutti indicati in nota assieme a eventuali spiegazioni.

45 «Opinioni» è scritto in seguito a «id[ee]» cassato.

46 Flamini aggiunge in fondo alla pagina: «(1) Ho letto anche gran parte dell’Etica d’Arist.[otele] tradotta da S. Tomm.[aso] e molte parti della Somma [teologica]».

47 «Obbedendo alla» è scritto sopra «per effetto della» cassato.

48 La parola risulta di difficile lettura per un trascorso di penna.

49 Scrive Flamini in I significati reconditi che «quando l’amore si torce al male, la volontà fa il medesimo; ond’essa, corrompendosi diventa “mal volere”, e l’animo perciò si dispone “a malizia”» e in tal caso «il fine a cui l’uomo tende è sempre l’“ingiuria” […]; ma due diversi mezzi ha l’uomo per conseguirlo: la violenza e la frode». Cfr. F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., p. 131.

50 Tito Bottagisio. Dantista, ha scritto sul limbo dantesco (Il limbo dantesco: studi filosofici e letterari, Padova, Tipografia e libreria editrice antoniana, 1898), sul «Veglio di Creta» (Il Gran Veglio di Creta. Fonte storica. Simbolismo, Monza, Scuola Tip. Ed. Artigianelli, 1917) e su Bonifacio VIII e un celebre commentatore di Dante: opera in gran parte composta su documenti dell’Archivio vaticano nuovamente e criticamente discussi, Milano, Scuola Tip. Salesiana, 1926.

51 Nel primo volume di I significati reconditi, al §15 del primo capitolo (Il I e il V cerchio: infidelitas ed haeresis; prospetto sinottico dell’ordinamento morale dell’Inferno, pp. 185-189), Francesco Flamini scrive che infidelitas e haeresis «han questo di comune, che sono entrambe un peccato, per così dire, negativo. “Non per far, ma per non fare” [Purg., VII 25], han perduto la gloria celeste tanto gl’infedeli del Limbo, quanto gli eresiarchi della “grande campagna” adiacente al lato interno delle mura di Dite». Essi sono peccati negativi in quanto consistono «in un difetto, anziché in atti perversi». Cfr. F. Flamini, I significati reconditi…, vol. I, cit., pp. 186-187.

52 Michele Scherillo. Cfr. N. Mineo, Scherillo Michele, in ED, 1970, disponibile online al sito: https://www.treccani.it/enciclopedia/michele-scherillo_(Enciclopedia-Dantesca)/.

53 Francesco Torraca. Cfr. DBI, s.v. Torraca Francesco, di P. Rigo, 2019, disponibile online al sito: https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-torraca_(Dizionario-Biografico)/.

54 Si tratta del passo finale del saggio di Francesco Torraca sull’Epistola a Cangrande, che qui citiamo per esteso: «Il soggetto del poema è lo stato delle anime dopo la morte, ed è l’uomo in quanto, meritando e demeritando per la libertà dell’arbitrio, è sottoposto alla giustizia, che premia o punisce; il fine è: rimuovere i viventi su la terra dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità. Che ha scoperto di più esatto, di più profondo la critica dantesca antica e moderna?». Cfr. F. Torraca, L’Epistola a Cangrande, in Studi danteschi, Napoli, Perrella, 1912, pp. 249-304, ma già pubblicato come articolo in «Rivista d’Italia», diretta da D. Gnoli, anno II, vol. III, fasc. XII, 15 dicembre, 1899, pp. 601-636.