Francesco Cazzamini Mussi, Marino Moretti, Gli Allighieri, a cura di Alessandro Merci, con una postfazione di Alfredo Cottignoli, Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2024 (Collana del «Bollettino dantesco». Studi e testi, 8)
Tra le opere più significative della vasta produzione teatrale di soggetto dantesco fiorita tra il XIX e il XX secolo, il poema drammatico Gli Allighieri, composto a quattro mani da un giovane Marino Moretti e dall’amico milanese Francesco Cazzamini Mussi tra l’autunno del 1908 e l’estate del 1909, viene oggi riproposto in edizione moderna, prefata e annotata, al fine di sottrarlo a quell’oblio a cui lo avevano ingiustamente condannato gli stessi autori. L’opera, che costituisce una testimonianza significativa dello sperimentalismo morettiano nella felice stagione che vide nascere anche le celebri Poesie scritte col lapis, si segnala per l’insolita attenzione rivolta all’intera famiglia Alighieri, e non al solo Dante, il quale, pur rimanendo sempre al centro dell’azione, non compare mai in scena; largo spazio è invece lasciato ai figli Jacopo, Pietro e Antonia (Suor Beatrice), protagonisti rispettivamente della seconda, della terza e della quarta parte del poema, ai quali fanno da spalla tanto gli amici e gli allievi del cenacolo ravennate quanto i dotti bolognesi che per primi commentarono il poema. Il tutto nel pieno rispetto della verità storica, con minime licenze finalizzate a illuminare, sempre in modo verosimile, le pagine rimaste in ombra, secondo la grande lezione manzoniana. A guidare la penna dei due sodali, ma soprattutto di Moretti, principale artefice dell’opera (come degli altri poemi drammatici composti a quattro mani con l’amico e dedicati ai grandi italiani del passato, Leonardo da Vinci, 1908, Frate Sole, 1911, Giuditta, 1912), sono infatti le pagine del Trattatello boccacciano ma ancora più dell’Ultimo rifugio di Dante Alighieri di Corrado Ricci (1891), non a caso citato dai due scrittori come fonte e ispirazione principale del poema nella Nota apologetica che chiude il volume.
Se evidente appare il debito nei confronti del teatro di parola dannunziano, capace di esercitare sul giovane Moretti una indubbia suggestione, soprattutto con opere come Francesca da Rimini (1901), non meno chiara appare la volontà di superare tale modello, rifiutandone tanto l’enfasi declamatoria quanto la celebrazione del sangue e della lussuria: pur nell’eleganza che li contraddistingue, gli endecasillabi e i settenari del poema tendono infatti alla naturalezza e alla colloquialità, con toni e atmosfere che richiamano la miglior poesia crepuscolare. A impreziosire il poema, «dedicato ai sarcofaghi del sepolcreto di Braccioforte ai pini della foresta millenaria al silenzio della città morta», sono infine le suggestive illustrazioni liberty di Carlo Felice Zanelli, qui riproposte a oltre un secolo dalla ormai introvabile princeps.