Articolo di Margherita Paoli
La questione relativa al titolo della Divina Commedia è senza dubbio una delle più discusse dalla critica dantesca, a partire dalla disamina dei primi commentatori trecenteschi fino alle indagini più recenti. Lungo tale arco temporale, poco noto è l’articolo di Manfredi Porena (1873-1955), Il titolo della «Divina Commedia», pubblicato nel 1933 nei «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei» (s. VI, v. IX, f. 1-4, pp. 111-141) che acquista, invece, particolare importanza alla luce delle ricerche condotte negli ultimi anni. Il citato articolo non è l’unico scritto di Porena che merita una rivalutazione: il critico, infatti, è stimato soprattutto per la pubblicazione di un importante commento alla Divina Commedia, ma non è forse stato adeguatamente considerato per alcune sue osservazioni che devono essere estrapolate da articoli e note. Porena inizia a studiare il Sommo Poeta nel 1900 e instaura legami con i più noti dantisti dell’epoca, grazie sia al ruolo di docente (e poi Preside) presso la Facoltà del Magistero di Roma sia al fondamentale appoggio di Francesco D’Ovidio, suo maestro e suocero. Attraverso una ricognizione e uno studio dell’intera produzione dantesca di Porena, è stato possibile suddividere le sue pubblicazioni in due fasi. La prima fase, dal 1900 al 1932, consta di ampli testi che analizzano la Divina Commedia nella sua unità concettuale e strutturale (per esempio il Commento Grafico alla «Divina Commedia») e di opere incentrate su singoli canti, personaggi o chiose linguistiche che confluiscono in La mia lectura Dantis. Lo stile di questa prima fase, particolarmente ironico e caratterizzato da espliciti giudizi di valore, muta nel corso della seconda (1933-1945) presumibilmente perché Porena decide di limitare la focalizzazione a problemi secondo il suo giudizio rilevanti. Sono questi gli anni in cui si collocano le interessanti ‘intuizioni’ del critico, derivate da un approccio al testo contraddistinto dal «leggere Dante con il solo Dante».
Nella seconda fase si inserisce l’articolo relativo al titolo del poema. Porena analizza la questione mettendo in discussione l’autenticità dell’Epistola a Cangrande dal momento che, se la lettera venisse considerata autentica, sarebbe Dante stesso a rivelare il titolo dell’opera: Comedia. Per il critico, seguendo le teorie di D’Ovidio, l’Epistola è interamente apocrifa e senza alcun dubbio lo è il passo relativo al titolo, poiché genera forti incongruenze con quanto espresso nel De vulgari eloquentia e nel Convivio. Nell’Epistola, infatti, l’autore definisce il poema una ‘commedia’ per l’elocuzione dimessa e umile e perché scritto in volgare, lingua utilizzata dalle «mulierculae». Inoltre Porena, con ferrata argomentazione, afferma che, anche volendo considerare la suddetta parte autentica, il vocabolo «titulus» non indicherebbe tanto la denominazione del testo quanto ciò che si trova scritto nel frontespizio, come conferma l’utilizzo del termine «incipit».
Chiarito ciò, Porena suggerisce di spostare l’attenzione sul testo della Divina Commedia. Dante chiama «comedìa» la propria opera nel XVI (v. 127) e XXI (v. 2) canto dell’Inferno, inoltre Virgilio identifica l’Eneide con il termine «tragedìa» alla fine del XX (v. 113). Il poeta latino, senza alcun riferimento al titolo, sta indicando il proprio testo in modo generico e Dante, con chiaro parallelismo oppositivo, lo imita. Secondo Porena si ha una conciliazione ammettendo che ‘commedia’ non sia dicitura relativa all’intero poema bensì solo alla prima cantica, l’unica per molti anni a essere diffusa e letta: l’indicazione generica dell’Inferno è così andata a designare l’intera opera. Questa ipotesi è dimostrata dalla presenza di tale denominazione esclusivamente nella prima cantica: nel Purgatorio e nel Paradiso si verifica un cambiamento di tono e un mutamento qualificativo del testo. Infatti nel Paradiso troviamo i sintagmi «sacrato poema» (XXIII, v. 62) e «poema sacro» (XXV, v. 1) che per Porena possono altresì essere considerati un monito o una protesta verso l’erronea abitudine del pubblico e dei copisti.
Attraverso una puntuale indagine nei commenti successivi all’articolo di Porena, è stato dimostrato che il testo in questione non viene mai citato o preso in considerazione. Tuttavia, in alcune epistole giunte allo studioso e conservate nell’omonimo Fondo presso la Scuola Normale Superiore, l’articolo risulta discusso e talvolta apprezzato da alcuni dantisti, quasi a manifestare un’intima consapevolezza che non riusciva però ad avere un risvolto critico. L’ipotesi di Porena, su nuove basi e attraverso specifiche osservazioni, è sostenuta da interessanti contributi contemporanei e per questo necessita di ulteriori approfondimenti, come in generale la figura di Manfredi Porena dantista e alcune delle sue illuminanti ‘intuizioni’.