Marco Grimaldi, ricercatore di Filologia della letteratura italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma, ha recentemente pubblicato due importanti volumi di cui vogliamo dare notizia: Filologia dantesca. Un’introduzione, edito da Carocci e La poesia che cambia. Come si legge Dante, edito da Castelvecchi. Lo abbiamo intervistato per saperne di più sui suoi lavori.
Quali sono le caratteristiche del libro La poesia che cambia: come si legge Dante?
Il libro parla dei modi in cui Dante è stato letto e interpretato nei secoli: da Petrarca e Boccaccio, che sono stati i primi e più prestigiosi imitatori; da scienziati e divulgatori; dagli studi di genere; dalla critica dantesca più autorevole. E ha due obiettivi: mostrare alcune delle ragioni per le quali la Commedia è ancora al centro del canone della letteratura universale e spiegare quali sono i limiti dell’attualizzazione. Ora, come si sa, ci sono molti modi di leggere Dante. C’è il modo degli studiosi, che analizzano, pubblicano, commentano e interpretano per rendere le opere disponibili e comprensibili per un pubblico il più ampio possibile. La fortuna di Dante, in questo senso, è innegabile: assieme a Omero, Platone e Shakespeare, è uno degli autori sui quali si pubblica di più nel mondo. Ed esiste infatti un Dante per le scuole e per le università; soprattutto in Italia, dove la lettura della Commedia è nei programmi scolastici dall’Unità. C’è poi il modo degli scrittori e degli artisti, che è quello di creare opere ispirate a Dante riutilizzandone le immagini, i personaggi, le forme poetiche. Nei secoli scorsi sono nati così dipinti, statue, romanzi e opere teatrali e nascono ancora oggi videogiochi, graphic novels, film, musical e documentari. C’è poi il modo del mercato, che tende irresistibilmente a comprendere in sé tutte le altre modalità: Dante, a partire dalla fine dell’Ottocento, è diventato anche un brand, un marchio per vendere prodotti di consumo. E c’è poi il modo dei lettori comuni, degli appassionati, di coloro che in Dante, come in tutte le grandi opere della letteratura universale, cercano delle risposte, qualcosa che li riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente e proiettato verso il futuro. Che è poi il modo di chi, come Francesco Petrarca quando leggeva le Confessioni di Agostino, ha «a tratti l’impressione di leggere non la storia d’altri», ma quella del suo «proprio peregrinare».
Dante, quindi, è in mezzo a noi. E lo è sempre stato: da quando, mentre era ancora in vita, le sue poesie già circolavano in varie parti d’Italia e da quando, poco dopo la morte, furono scritti i primi commenti alla Commedia. E lo è ancora oggi, all’epoca del grande successo delle letture pubbliche, dei podcast, del videogioco ispirato all’Inferno e di tutte le iniziative organizzate, in varie parti del mondo, tra il 750° anniversario della nascita nel 2015 e il 700° della morte nel 2021.
Ma questa presenza continua non deve ingannarci. Al Castello Sforzesco di Milano, in occasione dell’Expo 2015, si poteva interagire con un’immagine virtuale di Dante in grado di rispondere alle domande del pubblico. I responsabili dell’iniziativa dichiaravano al “Corriere della Sera”: «Dante virtuale è molto più di un meccanismo che risponde a domande. È un giovane uomo che ha potenti valori etici. È personaggio che insegna, che discute, che ascolta e che è sempre e comunque dentro la Storia». Non ho avuto occasione di interrogare l’ologramma personalmente e non posso dire nulla su quanto aveva da insegnare, discutere e ascoltare. Sono però sempre stato molto scettico sulla possibilità di porre a Dante delle domande sul nostro presente. Infatti, se non c’è dubbio che ai suoi tempi fosse “sempre e comunque dentro la Storia”, è molto difficile che Dante possa rispondere, come un oracolo, alle domande che gli rivolgiamo oggi. O che possa farlo in modo sostanzialmente diverso da tutti i grandi scrittori di ogni tempo. Credo anzi che molti degli errori di alcuni studi moderni e di molte letture divulgative derivino dalla tendenza a immaginare Dante come un uomo che aveva problemi simili ai nostri e che possa quindi aiutarci a vivere e a comprendere il presente.
Nel libro si parla quindi sia dei motivi per i quali possiamo ritrovare in Dante, e in particolare nella Commedia, “la storia del nostro peregrinare”, sia delle ragioni che dovrebbero spingerci a non avvicinare troppo Dante a noi, per evitare di non vedere più Dante ma solo noi stessi. E alcuni capitoli sono quindi dedicati a incoraggiare lo scetticismo nei confronti delle interpretazioni attualizzanti e di tutti i metodi di lettura – a partire dai gender studies – che si proclamano atemporali e che pongono l’enfasi sulle costanti, dimenticando le variabili e le diversità. Come ha scritto uno dei più importanti studiosi del Medioevo del secolo scorso, Aron Gurevič, il rischio è che «al prisma di diffrazione attraverso il quale si può in qualche modo discernere i tratti delle culture passate» si sostituisca «uno specchio nel quale la contemporaneità contempla sé stessa, immaginando di vedere il passato».
Quali sono invece quelle del libro Filologia dantesca: un’introduzione?
Il libro non è e non vuole essere una sintesi completa dello stato attuale degli studi danteschi: è invece una introduzione pensata per studenti universitari che conoscano già i fondamenti della letteratura italiana dei primi secoli e che possiedano inoltre elementari cognizioni di metodi e modelli della filologia italiana e romanza. Ed è rivolto anche, più in generale, a chi intenda avere a disposizione una guida allo studio della tradizione delle opere dantesche.
Scrivendo questa introduzione mi sono dato tre obiettivi principali (che corrispondono a tre capitoli), basandomi sui testi critici di riferimento, sulle principali edizioni commentate e sugli studi più autorevoli e recenti. Innanzitutto, delineare un quadro sintetico della tradizione di ogni opera, dalla Vita nova alla Commedia. Poi, tracciare una sintesi della storia della tradizione, dalle prime tracce duecentesche della diffusione delle poesie di Dante alla prima divulgazione della Commedia, da Boccaccio fino all’età della stampa. E infine mostrare come i diversi editori e commentatori hanno affrontato alcuni dei principali problemi filologici, dalla collazione all’edizione di testi monotestimoniati, dalla classificazione alla dimostrazione dell’archetipo, dalla restituzione della veste formale alle modalità di commento. Si tratta quindi un libro molto diverso e in un certo senso complementare rispetto all’importantissimo e pionieristico manuale di Saverio Bellomo (Filologia e critica dantesca); ed è pensato soprattutto per corsi universitari che vogliano affiancare a una trattazione complessiva della tradizione dantesca un approfondimento monografico su una singola opera.
L’idea fondamentale che mi ha spinto a scrivere questa Filologia dantesca è che lo studio della tradizione delle opere di Dante e dei loro aspetti filologici sia di importanza cruciale, prima di tutto per la storia della critica del testo: poiché analizzare i problemi posti dall’edizione delle opere dantesche e comprendere il modo in cui sono stati risolti dai diversi editori antichi e moderni consente di ripercorrere gran parte delle principali questioni metodologiche della filologia applicata ai testi latini e volgari. Ed è estremamente rilevante anche per la tradizione testuale italiana, perché la circolazione manoscritta e a stampa del corpus delle opere dantesche costituisce un capitolo fondamentale di storia culturale tra Medioevo ed Età moderna. La tradizione delle opere di Dante rappresenta un caso di studio particolarmente significativo per ampiezza, per distribuzione geografica dei contesti di produzione e di diffusione, per tipologia delle tradizioni delle diverse opere e per varietà dei problemi di natura ecdotica.
Com’è ovvio, trattandosi di una introduzione rivolta a un pubblico universitario, ho dovuto sintetizzare e semplificare, soprattutto per quanto riguarda le moltissime questioni aperte sulle quali le opinioni degli studiosi divergono spesso molto radicalmente. In vari casi non ho tuttavia rinunciato a prendere posizione, sperando di aver citato sempre le più autorevoli voci contrarie, come sull’attribuzione del Fiore e dell’Epistola a Cangrande, sulla scelta di Vita nuova o Vita nova e sul problema della veste formale della Commedia.
Cosa suggerirebbe a un insegnante delle scuole superiori per proporre un percorso didattico dantesco nelle classi attuali?
Credo fermamente che il fine della scuola non dovrebbe essere di far leggere a tutti gli studenti la Commedia, Donna me prega di Guido Cavalcanti o le tenzoni sulla natura d’amore dei Siciliani. Il fine della scuola dovrebbe essere soprattutto fare in modo che tutti gli studenti siano capaci, alla fine del percorso scolastico, di leggere – se lo vorranno – i siciliani, Cavalcanti e la Commedia. Di conseguenza, ritengo che a scuola ci sia bisogno di meno Dante. Perché c’è soprattutto bisogno di uno studio più intenso della storia, della storia della letteratura, della lingua, dell’arte, della scienza. Solo così Dante può essere trasmesso alla modernità, e non aumentando le ore di lettura della Commedia. Agli insegnanti che intendono creare dei percorsi didattici danteschi suggerirei quindi di concentrarsi innanzitutto su quello che c’è prima e attorno a Dante: sui trovatori, sull’epica, su Ovidio e Orazio nel Medioevo, su Guittone d’Arezzo, su Giotto. Perché se si perde tutto questo – che è ciò che nelle Indicazioni nazionali, nella prassi didattica e nei manuali tende a occupare sempre meno spazio – leggere Dante non sarà più possibile.