Raffaele Pinto, “La maledetta lupa” del capitale. Il pensiero economico-politico di Dante, Franco Cesati editore, 2022, pp. 144.
I saggi che in forma di capitoli compongono il volume descrivono lo svolgimento della riflessione economico-politica di Dante dal suo affiorare (le due dottrinali scritte a Firenze) fino al Paradiso e alla Monarchia, mostrando come la critica di una certa modalità di produzione della ricchezza (il primo capitalismo) sia il nucleo ideologico dal quale si diramano sia la polemica contro le forme di organizzazione politica prevalenti al suo tempo (il Comune ed il Regno), sia la teorizzazione dell’Impero, la cui istituzionale finalità consiste nel neutralizzare la blanda cupiditas, ossia la ricerca del profitto cui tutte le formazioni politiche locali sono fatalmente votate.
Sul piano biografico viene messo in evidenza un elemento non adeguatamente valutato dai biografi, e cioè il fatto che Dante veniva da una famiglia che esercitava il mestiere del ‘cambio’ (ossia dell’usura) da generazioni, il che spiega da una parte, sul piano psicologico, la sua ripugnanza nei confronti della logica del denaro e del profitto (il lucrum), e dall’altra, sul piano teorico, il fatto che egli conosceva questa logica dall’interno, cioè perfettamente. Sulla pubblica infamia che pesava sul poeta per le sue origini familiari sono rivelatori i sonetti che gli dirige il magnate Forese Donati.
Un elemento di notevole interesse che emerge da queste ricerche è che la giustificazione religiosa e teologica della economia di mercato, e quindi del profitto, venga dagli ambienti dai quali meno ce lo aspetteremmo, e cioè dai francescani ‘spirituali’, rigorosi nel sostenere il voto assoluto di povertà (l’usus pauper) all’interno dell’ordine, ma pienamente favorevoli alla logica del lucrum nel mondo dei laici: il primo e principale teorico di questo capitalismo originario è proprio quel Pietro di Giovanni Olivi che ispirò il radicalismo degli ‘spirituali’. La recente bibliografia sul francescanesimo ‘economico-politico’ viene ampiamente citata per correggere una prospettiva del dantismo ormai obsoleta.
Confrontato con le fonti aristotelico-tomiste, rispetto alle quali il pensiero politico di Dante va valutato nella sua fortissima originalità, la teorizzazione della Monarchia universale rivela aspetti finora trascurati, ossia la sua necessità innanzitutto economica (indipendente da ogni altra considerazione di tipo religioso o morale). Posta la necessità che l’ambito politico della sovranità corrisponda all’ambito economico della divisione del lavoro, intesa come l’insieme delle attività produttive che garantiscono la sopravvivenza materiale della comunità politica considerata, secondo un metodo di analisi adottato con rigore sia da Aristotele che da S. Tommaso, una realtà storica nella quale la rete commercale, e quindi l’economia, abbracciano potenzialmente il mondo intero, deve essere compresa politicamente da una istituzione la cui sovranità si estenda a tutta la terra. Mentre Aristotele vedeva nella polis l’ambito in cui si realizzava la divisione del lavoro necessario e sufficiente alla produzione della ricchezza, e S. Tommaso la vedeva nel regnum, Dante intuisce che la logica del capitalismo, con un mercato che abbraccia l’intero pianeta, si estende all’intera umanità, e teorizza quindi la necessità di una istituzione, la Monarchia universale, che si adegui all’ambito universale del capitalismo.