Si ringrazia il prof. Floriano Romboli, per aver concesso la pubblicazione del suo contributo.
Benedetto Croce, alla fine de La poesia di Dante, la giustamente celebre monografia del 1921, dopo aver a lungo discorso del rapporto fra tradizione filosofico-culturale, problematiche teologiche e dottrinali, e valori artistico-letterarî nella Commedia, concludeva sottolineando il significato universale del poema dantesco poiché in esso prontamente si riconosce “quella voce che ha il medesimo timbro fondamentale in tutti i grandi poeti ed artisti, sempre nuova, sempre antica, accolta da noi con sempre rinnovata trepidazione e gioia: la Poesia senza aggettivo. A coloro che parlano con quel divino o piuttosto profondamente umano accento, si dava un tempo il nome di Genî; e Dante fu un Genio”.
Nello stesso anno – sesto centenario della morte dell’Alighieri – papa Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa, 1854-1922) si univa alle celebrazioni con l’enciclica In praeclara summorum firmata in Roma il 30 aprile e indirizzata “ai diletti figli professori e alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico”; in essa, stavolta all’inizio, anche il pontefice poneva in risalto la rilevanza invero straordinaria di quella figura, la sua indiscutibile genialità, nella rivendicazione esplicita e fiera di una peculiare appartenenza intellettuale-morale: “Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili…si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero. Noi pertanto… non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto, spettando soprattutto alla Chiesa, che gli fu madre, il diritto di chiamare suo l’Alighieri (allo scopo di) dimostrare ancor meglio l’intima unione di Dante con questa cattedra di Pietro, e come le lodi tributate a così eccelso nome ridondino necessariamente in non piccola parte a onore della fede cattolica”.
I miei corsivi non intendono affatto accreditare la connessione genetica tra il contributo interpretativo di un pensatore notoriamente “laico” e il documento pontificio: da un lato era il tentativo meditato di una sistemazione critica, dall’altro la considerazione dell’attualità di un messaggio d’arte esemplare altresì dal punto di vista religioso, nell’àmbito della definizione aggiornata di un patrimonio teoricamente e spiritualmente identitario da prospettare quale riferimento essenziale alle comunità dei cittadini dei nuovi Stati nazionali d’Europa e del mondo, compreso quello italiano che da alcuni decenni aveva posto fine al potere temporale della Chiesa: “Appreso così quasi tutto lo scibile, e nutrito specialmente di sapienza cristiana, quando si accinse a scrivere, dallo stesso mondo della religione egli trasse motivo per trattare in versi una materia immensa e di sommo respiro. In questa vicenda si deve ammirare la prodigiosa vastità e acutezza del suo ingegno, ma si deve anche riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina (…) Infatti tutta la sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità, premia e punisce gli uomini, sia individualmente, sia nelle comunità, secondo le loro responsabilità”.
Papa Della Chiesa con tale atteggiamento continuava il nuovo corso magisteriale e pastorale avviato da Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci, 1810-1903), il quale nel suo lungo pontificato volle superare la contrapposizione intransigente con le varie istituzioni parlamentari-rappresentative di matrice liberale che aveva sostanzialmente contraddistinto gli atti del suo predecessore Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1792-1878), adottando uno spirito dialogico e una disposizione positiva in vista di un incontro valoriale, di cui s’impegnò a precisare le coordinate ideali nelle numerose encicliche (ne scrisse ben ottantasei: fra di esse memorabile fu la Rerum Novarum, dedicata alla questione operaia e ai problemi sociali dell’epoca industriale, pubblicata il 15 maggio 1891).
In un’ottica siffatta non deve sfuggire l’importanza della raccomandazione che Benedetto XV affidava a una delle tante puntualizzazioni elogiative del grande poeta fiorentino: “Dunque egli definisce la Chiesa romana quale “madre piissima” o “sposa del Crocifisso”, e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna”. Si tratta di un’affermazione che va letta unitamente all’altra, conseguente al vivo apprezzamento della salda coerenza etico-religiosa di Dante, di quella fedeltà ai princìpi che fa del suo poema “un vero tesoro di dottrina cattolica”: “Infatti l’Alighieri non era uomo che per ingrandire la patria o compiacere ai prìncipi potesse sostenere che lo Stato può misconoscere la giustizia e i diritti di Dio, perché egli sapeva perfettamente che il mantenimento di questi diritti è il principale fondamento delle nazioni”.
In questo passo di In praeclara summorum è l’eco non sopita di un recente e rilevante episodio storico, nonché di un antico problema d’ordine concettuale ed esegetico.
È risaputo che papa Benedetto si oppose con tenacia ammirevole allo scatenamento del primo conflitto mondiale, concependo a questo scopo la sua prima enciclica, Ad Beatissimi Apostolorum Principis del 1 novembre 1914 (“Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia (…) E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armate, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte della istessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei cieli?”), ma soprattutto nel pieno della guerra, nel delineare alcuni “capisaldi di una pace giusta e duratura”, si espresse nei termini di un’asserzione rimasta meritamente famosa: “(Nel presentare le condizioni) siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate, e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più apparisce inutile strage (cors. mio).
Meno conosciuto è il fatto che un’opera minore di Dante, il breve trattato in tre libri De Monarchia, fu annoverata fra i libri proibiti fin dalle prime compilazioni dell’Index, al tempo del Concilio di Trento (1545-1564), magari inclusa nella classe seconda, non quella concernente gli autori tout court, bensì unicamente i libri “che vengono respinti quand’anche scritti da chi mai si è separato dalla Chiesa ma che possono arrecar danno all’animo dei fedeli a causa della dottrina erronea o difettosa o anche nociva solo sul piano dei comportamenti” (qui propter doctrinam, quam continent, non sanam, aut suspectam, aut quae offensionem etiam in moribus tantum fidelibus afferre potest, reiciunt; etiam si auctores, a quibus prodiēre, ab Ecclesia numquam desciverunt (cito dalla pagina 11 dell’Index librorum prohibitorum stampato a Roma nel 1564 da Paolo Manuzio per volontà di papa Pio IV).
La condanna persisteva alla fine dell’Ottocento, secondo che attesta l’Index pubblicato a Torino nel 1890, durante il pontificato di Leone XIII, l’autore della già menzionata Rerum Novarum, che pure in alcuni passi, ad esempio al paragrafo 28, contiene riflessioni consonanti con determinati luoghi del trattatello dantesco: “E perché il potere politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi sull’esempio di questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a tutto l’universo”.
Gli è che la rigidità censoria, datata e scarsamente fondata, male si conciliava con la mentalità aperta e innovatrice di papa Pecci, tra l’altro ammiratore e appassionato lettore della Commedia, che nella revisione del 1900 tolse dall’elenco delle opere degne d’interdizione il lavoro teorico-politico dell’Alighieri, pur se ogni tipo di riserva ideale-culturale sarebbe caduto definitivamente proprio negli anni di Benedetto XV.
A ogni buon conto nessuna altra edizione dell’Indice ne avrebbe più contenuto il titolo; non ve n’è traccia, ad esempio, in quella predisposta su ordine di Pio XI e licenziata in Roma con la prefazione, datata 7 giugno 1929, del segretario della Congregazione del Sant’Uffizio, cardinale Rafael Merry del Val (1865-1930).
Sulle ragioni di tale plurisecolare perseveranza nell’ostilità si è soffermato qualche anno fa uno studioso di valore come Luciano Canfora in un intervento ne “Il Corriere della sera” del 7 ottobre 2013, occasionato da una coeva nuova edizione commentata del De Monarchia apparsa per i tipi della romana Salerno.
Al filologo pugliese il libro sembra collocarsi “al vertice di una nobile ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana ‘Libera Chiesa in libero Stato’”; siamo cioè dinanzi a una delle prime dichiarazioni di indipendenza del potere laico, che doveva essere affrancato dall’“ingerenza della Chiesa”, stante “la totale uguaglianza e parità delle due autorità”. Questo più esattamente è il nocciolo del suo ragionamento critico: “Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l’impero (…) (E) la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del ‘Vicario’. E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all’intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell’uomo cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l’uomo è guidato dalla ‘rivelazione’. Come l’impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede”.
Tuttavia per Dante non può darsi alcuna valida politica al di fuori del quadro progettuale e assiologico postulato dalla fede religiosa; l’idea cardinale dell’omnis potestas a Deo non si accorda di certo con quella – propria della visione immanentistica, utilitaristico-laica e pre-liberale – dell’eterogeneità fra la dimensione terrena e temporale e la sfera soprannaturale e salvifica, essendo quella, per un intellettuale tomista del Medioevo, inconcepibile se non in funzione di questa a cui risulta di necessità finalizzata; vale la pena al proposito ricordare l’avvertimento inequivoco posto a conclusione del terzo libro del De Monarchia, per l’appunto al termine del capitolo XV: “(Non si deve escludere comunque) che il romano Principe non dipenda in qualcosa dal romano Pontefice, dal momento che questa nostra felicità terrena è in certo qual modo ordinata in vista della felicità ultraterrena. Usi pertanto Cesare verso Pietro quel rispetto reverente che il figlio primogenito deve al Padre, perché illuminato dalla luce della grazia paterna illumini con più efficacia il mondo, al governo del quale è stato eletto da Quello solo che è il governatore di tutte le cose spirituali e temporali (Ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Caesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator)”.
Era pertanto appropriato e congruente da parte di papa Benedetto rilevare nelle opere del poeta e segnatamente nella maggiore “non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati”.
Vi era poi un’altra osservazione del pontefice che occorre non trascurare: “(Lo studio dei classici e la consuetudine con gli scritti dei dottori e dei padri della Chiesa) consentirono al suo pensiero di elevarsi e di spaziare in orizzonti ben più vasti di quelli racchiusi nei limiti ristretti della natura. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell’antichità che fu spazzata via da Cristo trionfante sulla croce”.
La restaurazione del classicismo neo-pagano, la fervida ammirazione per la civiltà e la letteratura greco-latine reputate emblemi di una concezione della vita contrassegnata da equilibrio ideale e da integrità e sanità morali, e fonte di schiettezza e naturalità sentimentali, di probità e laboriosità civili e di eroismo patrio, erano da tempo motivi polemici di un discorso culturale-artistico svolto sovente in forme anti-cristiane, talora anti-clericali: il tema della “serenità classica” di ascendenza winckelmanniana era stato pienamente e vivacemente accolto nei versi e nelle prose di Giosuè Carducci (1835-1907) ed era attivo altresì nell’opera di chi come Friedrich Nietzsche (1844-1900) ne avrebbe operato un rovesciamento in senso dionisiaco o di qualche suo seguace italiano che ne avrebbe favorito esiti lirico-panteistici.
In tale contesto è impossibile non richiamare una rinomata poesia dell’acclamato “vate” della “nuova Italia”, quell’Alle fonti del Clitumno composta fra il luglio e l’ottobre del 1876 e compresa nelle Odi barbare fin dalla prima edizione zanichelliana del 1877: “Roma/ più non trionfa./ Più non trionfa, poi che un galileo/ di rosse chiome il Campidoglio ascese,/ gittolle in braccio una sua croce, e disse:/ – Portala e servi. (…) Quando una strana compagnia, tra i bianchi/ templi spogliati e i colonnati infranti,/ procedé lenta, in neri sacchi avvolta, / litanïando,/ e sovra i campi del lavoro umano/ sonanti e i clivi memori d’impero/ fece deserto, et il deserto disse/ regno di Dio (…) Salve, o serena de l’Ilisso in riva,/ o intera e dritta a i lidi almi del Tebro/ anima umana! i fóschi dì passaro,/ risorgi e regna./ E tu…Italia madre,/ madre di biade e viti e leggi eterne/ ed inclite arti a raddolcir la vita,/ salve! A te i canti de l’antica lode/ io rinnovello” (vv. 171-176, 181-188, 200-204 e 207-211, corsivi miei).
Nell’enciclica non si tacevano le aspre denunce dantesche contro i papi contemporanei, eppur si accordava comprensione indulgente a “un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno”, dal momento che “chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero…quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?”. Condivideva questo punto di vista un altro papa, Paolo VI (Giovanni Battista Montini, 1897-1978) (“Conosciamo bene infatti quanta e quale fu l’amarezza del suo animo, amarezza che fu tale da non risparmiare ben più duri rimproveri alla sua patria dilettissima, Firenze. Senza dubbio bisogna concedere alla sua arte e alla passione politica, soprattutto perché riprende vizi deplorevoli, una benigna indulgenza…”), nella lettera apostolica Altissimi cantus (7 dicembre 1965) stilata per il settimo centenario della nascita e nell’imminenza della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Papa Montini, che nel medesimo torno di tempo istituiva presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una cattedra di studî danteschi, rimarcava l’impegno storico-umano e il carattere ottimistico, attivo e non puramente devozionale del cristianesimo del poeta, opposto “diametralmente ad alcune tesi ascetiche e mistiche secondo cui tutti dovrebbero aspirare al comtempus mundi come unica forma di vita perfetta”, e ne esaltava il capolavoro, definendolo “tempio di sapienza e d’amore, di una sapienza che spira amore e di un amore ripieno di sapienza”.
Secondo Paolo VI, se il fine dell’arte consiste in una catarsi etico-intellettuale, in un’intensa elevazione dell’animo, Dante, autore cattolico (“È nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo…”), la attuava e trasmetteva mediante il senso religioso e specificamente grazie ai contenuti della fede cristiana: “Stando così le cose, la Divina Commedia può essere chiamata un itinerarium mentis in Deum, dalle tenebre della dannazione eterna alle lacrime della penitenza purificatrice e, di grado in grado, da una luminosa chiarezza a una ancor più lucente, da un amore fiammante a uno ancor più fiammante (…) E i temi della poesia in effetti sono offerti come testimonianze sicure e moniti perché si ascenda a Dio”.
Giova rammentare che di recente (4 maggio 2015), celebrando il 750° anniversario della nascita dell’Alighieri, anche papa Francesco con significativa identità di vedute ha dichiarato che il poema “può essere letto …come un vero itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico”, poiché – e qui torniamo a papa Montini – lo scopo del “signore dell’altissimo canto” (altissimi cantus dominus) “è anzitutto pratico ed è volto a trasformare e a convertire. (Quella grande opera) non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma soprattutto di cambiare radicalmente l’uomo e di condurlo dal disordine alla sapienza, dal peccato alla santità, dalle sofferenze alla felicità”.
In conclusione mi permetto di segnalare la non superficiale sintonia di varie affermazioni del documento montiniano con importanti risultati storico-culturali e interpretativi della moderna critica dantesca.
Ad esempio, leggendo che “la natura e l’ordine sovrannaturale, la verità e gli errori, il peccato e la grazia, il bene e il male, le opere degli uomini e gli effetti che ne conseguono, tutti sono considerati, giudicati, valutati al cospetto di Dio, e mostrano il loro vero valore nella prospettiva dell’eternità”, il pensiero corre all’ermeneutica “figurale” di Erich Auerbach (1892-1957) consegnata, fra l’altro, al saggio Farinata e Cavalcante, ospitato nell’ampio lavoro Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, edito per la prima volta a Berna nel 1946. Insieme ancora ad Auerbach viene in mente Mario Fubini (1900-1977) e in particolare le sue riflessioni sul “folle volo” di Ulisse ( v. Il peccato di Ulisse (1947), poi in Il peccato di Ulisse e altri scritti danteschi (1966), allorché seguiamo il papa nel suo argomentare: “Dante Alighieri non solo approva tutti i valori umani – intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili -, ma addirittura li esalta (…) Per quanto riguarda l’antichità classica, egli ritiene che sia stata una provvidenziale preparazione alla religione cristiana e che ne abbia spesso offerto allegorie”.
Relativamente poi alla poesia della terza cantica, l’analisi suggestiva e penetrante di Giovanni Getto (1913-2002) – v. Poesia e teologia nel Paradiso di Dante, in Aspetti della poesia di Dante (1966, ma 1a ediz. 1947) – è presupposta persino a livello terminologico. Nell’accostarsi ai canti del Paradiso, prima di introdurre le nozioni di “poesia della luce” e di “poesia dell’ineffabile”, lo studioso piemontese così si esprimeva, nell’intento di una rigorosa caratterizzazione: “ Se si volesse racchiudere in una formula provvisoria, didascalicamente orientativa, il contenuto poetico del Paradiso, si dovrebbe parlare, con una certa approssimazione, di epos della vita interiore, di dramma della vita della grazia, di poesia dell’esperienza mistica, e forse anche di lirica dell’adorazione”.
Queste sono le parole scritte in Altissimi cantus : “E quest’ascesa, rivolta a ciò che più è segreto ed eccelso, diventa epos di vita interiore, epos di grazia celeste, epos di viva esperienza mistica, di virtù multiforme; diventa teologia della mente e teologia del cuore”(corsivi nel testo).
Nell’omaggio convinto e sincero alla lezione morale e artistico-culturale dell’Alighieri in questo caso si realizzava la sintesi preziosa fra magistero religioso e critica letteraria.
Floriano Romboli