di Sergio Cristaldi
Nicolò Mineo (Alcamo 1934-Giarre 2023) è stato uno degli ultimi italianisti impegnati a indagare tutto l’arco della nostra letteratura. La specie, infatti, era già in estinzione quando Mineo iniziava le sue ricerche, curioso dell’intera produzione letteraria italiana e non di un solo segmento, di un’unica particella. Ciò non toglie che alcuni autori lo attraessero più di altri; anzitutto Dante, cui ha devoluto una lunga fedeltà, tanto da accreditarsi, ben presto, come uno dei suoi maggiori interpreti.
Il confronto con l’autore della Commedia Mineo lo avvia precocemente, negli anni Sessanta, intercettando il tema del profetismo, oggetto del suo primo libro dantesco, Profetismo e Apocalittica in Dante. Strutture e temi profetico-apocalittici dalla «Vita Nuova» alla «Divina Commedia» (1968). Sono pagine attrezzatissime, ma animate sottotraccia da una tesa passione umana. Sul giovane studioso – lo avrebbe confessato, in seguito, lui stesso – incideva un difficile frangente storico, con i suoi traumi, con le sue ferite ancora aperte: la guerra mondiale, l’olocausto, l’atomica e, dopo tanto orrore, i crimini persistenti di un’Europa ancora colonialista (anche la civilissima Francia poteva scatenare una violenta repressione in Algeria). Così, l’esplorazione dell’opera dantesca, esplorazione pur scrupolosamente attenta alle coordinate culturali del Medioevo, diviene per Mineo l’occasione di una verifica non solo accademica, ma più largamente etica e civile. Lo si vede in maniera anche più chiara nella monografia Dante, pubblicata a due anni di distanza. La Commedia – leggiamo qui – esprime l’aspirazione a una garanzia dal disordine, dal male, dalle guerre, l’esigenza di una società in grado di includere e armonizzare le ambizioni dei molti. In questo orizzonte, poesia e profezia tendono a combaciare: la poesia non è essa stessa la meta, è invece la tensione verso la meta, il preannuncio di essa.
Questa intuizione, maturata da Mineo assai per tempo, continua a ispirare il suo successivo dantismo, rifluito in due raccolte di saggi, Dante: un sogno di armonia terrena (2005) e Saggi e letture per Dante (2008); dove si registra, peraltro, una disponibilità verso le nuove metodologie narratologiche. Mineo riconosce il primato del testo; ma si tratta, per lui, di un primato del concreto individuo testuale, radicato nel terreno della storia. Gli schemi atemporali della narratologia vengono riscattati dalla loro astrazione e rimodulati sulla singola opera in esame che, nella sua fisionomia inconfondibile, reca i segni dell’ora in cui è sorta, le tracce dell’epoca in cui un’istanza universale veniva rimodulata storicamente.
Sarebbero già stati, questi due libri, un sigillo cospicuo del dantismo di Mineo. Ma per lui il consuntivo è ancora da venire. Ecco, nel 2016, una monografia nuova di zecca, Dante. Dalla “mirabile visione” a “l’altro viaggio”. Tra «Vita nuova» e «Divina Commedia». Il terreno era sdrucciolevole quanto mai, implicando una produzione sfrangiata, con liriche d’amore, poesie dottrinali, epistole latine e due trattati in prosa, il Convivio e il De vulgari eloquentia. Per Dante, nota Mineo, è questo un tempo di intuizioni, sondaggi, ricerche. Il tempo, insomma, di un travaglio sempre insoddisfatto degli esiti: non per caso, opere di polso come il Convivio e il De vulgari non giungono alla conclusione, si arrestano anzi molto prima, e rimangono quali grandi incompiute. Mi piace pensare che lo sperimentalismo di quel Dante intrigasse in particolar modo il suo interprete, a sua volta impegnato, in quella fase, a rimettere in gioco le proprie formule, ad andare oltre, aprendo nell’universo dantesco strade nuove. Gli citavo un passo di Robert Musil: «la verità non è un cristallo che si può mettere in tasca, è un mare sconfinato in cui ci si immerge».
Mineo ha sempre sottolineato, e a ragione, che il dialogo con Dante coglie insieme un’alterità e una vicinanza. Più che nelle risposte, la vicinanza è anzitutto nelle istanze: di sereno vivere entro una comunità solidale, di giustizia non partigiana, di superamento della precarietà. Sappiamo che l’autore della Commedia ha rintracciato, a riguardo, una serie di certezze. Ci ricorda, questo libro di Mineo, che si tratta di convinzioni guadagnate con fatica, entro un assiduo cercare, tutt’altro che infine appagato, al contrario sempre consapevole del suo limite. Anche il capolavoro di Dante, l’opera effettivamente completata, confesserà del resto, giungendo al traguardo, l’impossibilità di dire una volta per tutte ciò che ultimamente conta. La letteratura più rifinita offe un presagio, non è la nostra salvezza. È una delle indicazioni più preziose che Mineo ci ha lasciato in eredità.